Morte: se ne parla troppo o troppo poco?
«Caro direttore, spero mi perdonerà qualche riga su un argomento pesante, come appunto la morte. Si tratta di questo: si usa dire, e lo dice anche il “Messaggero” ad esempio nell’articolo di suor Marzia Ceschia, che la morte viene nascosta, che non se ne parla, ma in realtà a me sembra diverso. La morte è pubblicizzata; ogni tanto, ma non di rado, si trovano réclame a tutta pagina che propongono bellissimi funerali a buon prezzo, talvolta ci sono inviti a farsi cremare in una bella struttura e così via. Quindi la mia impressione è che la morte non sia sparita ma sia entrata nel circuito affaristico-pubblicitario. Che cosa ne pensa?».
Lettera firmata
Ringraziamo il lettore per lo spunto che ci ha fornito sulla tematica molto importante della morte. Innanzitutto penso che ci siano delle distinzioni da fare, in quanto ci sono contesti diversi in cui si parla di morte. Da un lato è vero che certamente spesso si parla di morte. Basta ascoltare le notizie della stampa che ogni giorno riportano la cronaca della guerra con la conta dei morti, a cui si aggiungono a volte elementi drammatici fino al raccapricciante; oppure gli episodi di violenza domestica, i femminicidi, le morti sul lavoro... Anche nel mondo della cultura e dello spettacolo: pensiamo a libri, a film, a serie tv in cui la morte è rappresentata in varie modalità, spesso enfatizzando l’aspetto violento e macabro. Ancora: molti videogiochi, sempre più realistici, hanno come obiettivo la morte degli avversari, oppure con facilità si possono fare vittime innocenti impunemente (sempre in modo virtuale, ma è davvero così innocuo?).
E quindi si può forse fare affari con la morte? Certo, come con tutte le cose umane. In parte sono servizi necessari, come le onoranze funebri che descriveva il lettore, che pure hanno un aspetto commerciale. In parte, però, c’è una sorta di spettacolarizzazione della morte, che crea una distanza rispetto all’evento stesso: è l’effetto di cui parlavo, per altre questioni, nell’editoriale del mese scorso. Essere spettatori, ma non partecipare, non essere davvero coinvolti: non prendere parte a un evento finisce col renderlo estraneo a noi, incapace di interpellare davvero la nostra coscienza. In qualche modo, quindi, la morte diventa una compagna del nostro quotidiano, di cui continuamente sentiamo parlare, ma fino a che punto ci tocca? Finché questa esperienza rimane lontana da noi, su uno schermo o a migliaia di chilometri di distanza, forse non più di tanto… Riprendendo le parole di suor Marzia Ceschia, nell’articolo «Sora morte, canto dell’esistere», pubblicato nel numero di novembre della nostra rivista all’interno del percorso «La via della bellezza» sul Cantico di frate Sole, è ben diverso «entrare in un rapporto di familiarità con la morte», che un tempo era più quotidiano, nel senso che le condizioni di vita erano più precarie; in questi termini, oggi «il morire è spesso evitato e virtualizzato».
Quando vediamo la morte in faccia, soprattutto quando sono i nostri cari a lasciarci, allora le cose cambiano. Non vorremmo mai perdere una persona che ci sta a cuore e il ricordo della sua dipartita ha sempre dei tratti dolorosi, che vorremmo allontanare da noi. Certamente in ciascuno è presente il desiderio di vivere e tutto ciò che si presenta come un limite alla vita causa disagio e insofferenza. Eppure il limite è parte del nostro essere umani, dell’essere creature: la sfida è quella di riconoscerlo e imparare a viverci dentro, cogliendo le possibilità che sono presenti all’interno di quei confini. Spesso, come afferma suor Marzia, la morte è percepita come un ostacolo, in quanto insidia «l’illusione di poter essere principio a se stessi, aspirando a surrogati di immortalità che paradossalmente rendono insopportabile la vita per quello che essa è».
La centralità di noi stessi come esseri autonomi e autosufficienti è alimentata dalla capacità di fare cose meravigliose grazie alla creatività, all’ingegno, allo studio e alla tecnologia, in una parola, grazie al progresso scientifico. Tutto ciò crea l’illusione di riuscire a sconfiggere tutti i nostri limiti, specialmente la malattia e la morte, costruendo la falsa speranza di poterci salvare da soli, di produrci una vita artificiale, che in realtà è un «surrogato di immortalità». E, come dice suor Marzia, questo ha un effetto paradossale: rendere insopportabile la vita stessa che abbiamo! L’intento di estenderla fino a vincere la morte con le nostre forze finisce per toglierci la bellezza di quanto già viviamo. Il fatto è che non abbiamo il pieno controllo sulla nostra vita, e tentare di imporlo porta a perdere anche quello che abbiamo; in questo senso possiamo rileggere le parole del Vangelo: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (cfr. Mt 16,25).
La morte è un evento inevitabile, ma nella prospettiva cristiana non è la fine di tutto, al contrario apre alla pienezza della vita, facendo verità su quanto una persona ha vissuto, sulle sue relazioni, sulla sua capacità di amare. Spesso sentiamo distante tutto questo, immersi come siamo nella fretta di un tempo che vuole tenerci nella superficialità, nella logica dell’«usa e getta», secondo i canoni dell’apparire. Una vita che si spegne, ad esempio, è spesso considerata come un peso, una fatica da affrontare; invece è una persona da accompagnare, non solo da un punto di vista medico, ma recuperando la cura integrale di lei, perché «quando non si può più fare nulla, si può ancora amare e sentirsi amati» (cfr. G. Bormolini, Accompagnatori accompagnati, Emp).
Essere presenti di fronte alla morte è difficile, e oggi spesso evitato, a volte per paura o per il senso di impotenza; e pensiamo di preservare gli altri, specialmente i più piccoli, togliendoli dalla vista della morte, forse ritenendo che non siano capaci di gestire il momento. Evadere dalla realtà, anche quando è dura e dolorosa, non è una strada che aiuta a vivere davvero. Piuttosto è importante educarci e sostenerci nel vivere il delicato rapporto con la sofferenza e la morte: accogliendo, ascoltando, molto spesso nella semplice silenziosa presenza.
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