Alex, trent’anni fa…
Nel piccolo paese dell’Alto Molise dove passerò una buona parte dell’estate è apparsa a una finestra, sotto una pianta di gerani, una piccola bandiera della Palestina. Al bar un uomo mi ha toccato un braccio e mi ha chiesto: «Bush ha bombardato l’Iran?». Non potevo nemmeno sorridere, perché era davvero accaduto e lui era sconsolato. Il giovane farmacista (la farmacia è comunale, aperta solo al mattino, il paese ha quattrocento abitanti) mi dice che in molti cominciano a rifiutare i farmaci generici prodotti dalla Teva, multinazionale farmaceutica israeliana. Qui non arrivano i giornali, arriva una copia de «Il Messaggero» e de «Il Quotidiano del Molise» perché il fornaio di un paese vicino le porta al bar della piazza. Internet è zoppicante.
Lontani da tutto, in cima a una montagna appenninica, attraversata dai venti dei Balcani. La guerra, l’opposizione alla guerra, è arrivata anche in questa terra lontana. È un fragile appiglio in questi tempi che appaiono senza quella Speranza a cui è dedicato il Giubileo. La guerra appare l’unico orizzonte visibile, il solo protagonista della storia del mondo di oggi. Una guerra globale, un conflitto mondiale «a pezzi». E così io continuo a pensare ad Alex Langer. E a trent’anni fa. Il 3 luglio del 1995 decidesti di abbandonare la vita, in uno dei luoghi più belli delle colline fiorentine. Si chiama Monteripaldi, una chiesa dedicata a san Michele, ai confini del Pian de’ Giullari e di piazzale Michelangelo. Era il mio rifugio dove corteggiare le ragazze. Qui, fra cento olivi, scegliesti un albicocco per andartene. Mi viene in mente una domanda stupida: «C’erano ancora albicocche sui rami di quell’albero»? O qualcuno le aveva già colte? O erano cadute a terra, stavano fermentando, e tu potevi vederle ai tuoi piedi?
Chi era Alex? Non è possibile racchiuderlo in una definizione. Anzi, alla fine, tutte le parole che sono state usate (e abusate, la più sbagliata: profeta) non riescono davvero a raccontarlo ai ragazzi e alle ragazze di oggi, a coloro che sono nati dopo quel luglio del 1995 o erano troppo giovani. Allora uso le parole di un suo «fratello», Adriano Sofri: scrive che se dovesse parlare a dei ragazzi e ragazze non esiterebbe «a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi e di incontri e di conoscenze e imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore, la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri col suo passo leggero, e voglia il cielo che non perdano la speranza». Già, ancora la speranza. Ostinata, maltrattata, fragilissima e cancellata di fronte alle bombe su Gaza, su Kiev, su Tehran, su Tel Aviv. E nell’altre, decine e decine, guerre oggi in corso nel mondo.
Mi colpivano i «dettagli» delle abitudini di Alex: era un grande scrittore di cartoline che inviava agli amici e a chi aveva appena conosciuto. Per lui le cartoline erano «un impegno». Non immagino cosa avrebbe combinato con le mail e WhatsApp. Invidiavo la sua agenda formidabile, i suoi mille indirizzi e numeri di telefono di persone di cui si ricordava perfettamente. Non so se l’avrebbe trasferita sulla rubrica di un cellulare.
Trent’anni fa, a fine maggio, la guerra di Bosnia: un cannone dell’esercito della Repubblica Serba lanciò una bomba a frammentazione sul quartiere Kapija della città di Tuzla. Non fu un colpo sparato a caso: centinaia di ragazzi si erano ritrovati in una piccola piazza per la «Festa della Gioventù». Avevano voglia di ascoltare musica, ballare, bere una birra, nonostante la guerra. Morirono in 71, 240 furono feriti. Una strage.
Alex Langer era parlamentare europeo. Cercava infaticabilmente una strada per far uscire i Balcani da quella guerra orribile. Era molto legato alla città di Tuzla, al suo sindaco, Selim Bešlagic, alla gente di Bosnia. «Non possiamo stare a guardare» disse dopo quella carneficina. Un mese dopo Alex organizzò una piccola delegazione, chiese e ottenne un incontro con il nuovo presidente francese Jacques Chirac, allora presidente del Consiglio dell’Unione Europea. Presentò un drammatico appello: «L’Europa nasce o muore a Sarajevo» e chiese, lui, pacifista, un intervento di «polizia internazionale» per fermare il massacro. Non venne ascoltato.
Una settimana dopo, Alex decise di lasciare questa terra.
Ancora una settimana e l’11 di luglio i miliziani dell’esercito della Repubblica Serba irruppero a Srebrenica, città della Bosnia Orientale, e cominciò l’eccidio più spaventoso: furono fucilati oltre ottomila ragazzi e uomini, musulmani di Bosnia, tra i 12 e i 77 anni.
Io non sono mai più tornato a Monteripaldi.
E ora, trent’anni dopo, l’apocalisse di Gaza, l’oscenità della guerra in Ucraina, il terribile «videogioco» dei droni, dei missili, delle bombe da 13mila e 600 chili sganciate da aerei B2 Spirit (Spirit!, ci rubano perfino le parole), capaci di volare per 40 ore di seguito con 18 tonnellate di bombe chiuse in stiva.
Alex era nato nel Sud Tirolo-Alto Adige, suo padre era ebreo non praticante, sua madre era una donna laica, una farmacista. Lui aveva studiato a Bolzano dai francescani e frequentato Don Milani e la scuola di Barbiana. Tradurrà in tedesco Lettera a una professoressa. Alex, da ragazzo, era incuriosito da un «omone grande e grosso, barbuto e vecchio» che appariva negli affreschi delle piccole chiese delle sue montagne. Fu la madre a raccontargli la storia di quel gigante: l’uomo trasportava sulle spalle, con evidente fatica, un bambino. Lo stava aiutando ad attraversare il fiume. Il peso del bambino, a ogni passo, diventava sempre più insopportabile. Ma l’uomo, stremato, riuscì a portarlo fino alla riva opposta. Solo allora il piccolo rivelò di essere il Cristo e spiegò al traghettatore che aveva trasportato sull’altra sponda tutto il peso del mondo. L’uomo si convertì e assunse il nome di Cristoforo, «colui che porta Cristo». Alex fu affascinato dalla parabola, al punto di scrivere, nel 1990, una lettera al santo protettore dei viaggiatori, venerato da cattolici e ortodossi. Alex volle spiegare le ragioni per le quali gli stava scrivendo: «La traversata che ci sta davanti richiede forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quella che sta dinnanzi a noi?». Il fiume che questa umanità deve attraversare, oggi è in piena e le sue acque stanno esondando. Nessun argine sembra in grado di fermarle.
Alex non è più con noi da trent’anni. La sua assenza è stata spesso insostenibile in tutto questo tempo. Ma è accaduto anche che, a volte, si sia trasformata in una presenza per giovani che hanno voluto saperne più di te. Alex, non hai idea di quanto abbiamo bisogno di te, delle tue parole, delle tue azioni ora che ci troviamo, spaventati e impotenti, nel precipizio di una «voragine irreparabile». Aiutaci, come ci invitavi nel tuo messaggio di addio, a «continuare in ciò che è giusto».
Mi hanno raccontato che molti dei ragazzi uccisi quel giorno a Tuzla sono stati sepolti uno accanto all’altro. Erano musulmani, cattolici, ortodossi, non credenti. Vi fu chi voleva che venissero sepolti in cimiteri diversi. Le loro famiglie si opposero: «Hanno vissuto sempre assieme, devono rimanere assieme».
Uno scrittore fiorentino, Alessandro Raveggi, ha scritto un libro attorno ad Alex Langer. È in libreria da poche settimane. Continuate in ciò che è giusto. Edizioni Bompiani.
Foto: Edi Rabini
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