La parola crea il nemico

Il clima di guerra inizia dall’uso divisivo delle parole, per uscirne occorre un vocabolario universale.
03 Novembre 2025 | di

Sono passati ormai dieci anni da quando la Treccani, istituto che promuove la cultura italiana nel mondo, ha lanciato l’iniziativa «le parole valgono». Si era nel 2015, un tempo che precede Trump, la Brexit, il covid, lo stato di tensione internazionale permanente odierno, ma già allora si avvertiva l’estrema urgenza di dare un valore alle parole che utilizziamo. Se le «sprechiamo» o le «usiamo come pietre» rischiamo moltissimo. Alla luce di quanto accaduto dopo, possiamo parlare di un allarme quasi profetico. Pensate alle polemiche delle ultime settimane sul «linguaggio d’odio» che domina il Pianeta. 

Per quasi tutti gli attori politici che rilanciano il tema, l’odio è sempre e solo quello degli altri nei loro confronti, non è mai frutto invece di un eccesso di aggressività che pervade la contemporaneità. Emerge una sorta di dimensione tribale: questi attori (o attrici) rivendicano per sé e per il proprio gruppo ogni qualità e attribuiscono all’antagonista ogni genere di nefandezza. È una logica dove l’identità nasce sempre dallo scontro con l’altro secondo dinamiche messe a fuoco da Umberto Eco nella raccolta di saggi uscita nel 2011 con il titolo Costruire il Nemico. Eco invitava i lettori ad approfondire «i meccanismi che portano gli uomini a individuare sempre nuovi avversari» in un’epoca «segnata dall’aumento di forme di razzismo e da una feroce contrapposizione politica». Chi studia comunicazione sa bene poi quale sia stato il contributo che i media (mi riferisco soprattutto all’interazione tra televisione urlata e social) hanno dato a questi processi degenerativi. I «pensieri lunghi», cioè, approfonditi e inseriti in un contesto, hanno trovato spazio solo in «luoghi periferici» del sistema dei media, fondamentali comunque per mantenere accesa una fiaccola di speranza. E l’ossessione verso «il nemico esistenziale», costitutivo «per differenza» della propria identità, conduce inesorabilmente alla cancellazione di ogni idea di fratellanza universale, promuove quella «logica di guerra permanente» che domina la scena pubblica del nostro tempo, contrassegnata da un crescendo di conflitti armati, stragi, genocidi di civili indifesi.

Che cosa ci può salvare? Ritornerei all’attenzione alle parole. Non c’è solo il rischio di usarle in modo superficiale e inconsapevole. Avverto un altro pericolo: quello di venire accecati dagli slogan, da concetti agitati come feticci ideologici. Citerò solo un esempio. Prendete il termine «Occidente», lo evocano tutti coloro che ci invitano a imbracciare le armi per difendere la nostra sicurezza. Il concetto di Occidente, tuttavia, è sempre proposto in modo vago, indefinito. Comprende o meno gli Stati Uniti del «prima l’America» di Donald Trump con la sua idea di un’Europa scroccona da attaccare coi dazi? Sul tema sono usciti negli ultimi anni addirittura 170 libri secondo uno dei più affermati siti di vendite online. Nessuno ha fatto veramente chiarezza su che cosa sia oggi Occidente. La realtà, come sempre, è multiforme, non riducibile a slogan. C’è un pensiero occidentale motore di diritti umani e di rispetto reciproco, ma ci sono pure l’eredità del colonialismo, le logiche suprematiste che includono o escludono in base a criteri opportunistici. La via d’uscita? Stare dalla parte delle agenzie e delle voci che promuovono principi universalistici. L’alternativa sono tribù che si autodistruggono, mentre l’umanità si salva solo se si sente unita.

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Data di aggiornamento: 03 Novembre 2025

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