Beato Angelico tra sacro e umano
«Vado a vedere una mostra». Quante volte lo avete detto riferendovi al gesto di recarvi in un luogo preciso per ammirare delle opere d’arte? In realtà, però, oltre al tragitto in sé, muoversi verso una esposizione significa anche viaggiare nel tempo e nella vita di un artista, visitare i luoghi in cui egli ha vissuto e lavorato, conoscere i maestri che lo hanno ispirato, assaporare l’atmosfera che egli ha respirato. Proprio per questo motivo, la mostra diffusa dedicata al Beato Angelico a Firenze ha una marcia in più. Distribuita tra il Museo San Marco e Palazzo Strozzi e aperta fino al 25 gennaio, con oltre 140 opere tra dipinti, disegni, miniature e sculture di fra Giovanni da Fiesole alias Guido Di Piero (questo il nome del frate pittore), ma anche di suoi contemporanei, l’esposizione si configura come un percorso immersivo nel cuore della città rinascimentale per eccellenza.
Preparatevi a stupirvi, a commuovervi e... a stancarvi. Attraverserete chiostri, scalinate, corridoi, celle, sale e perfino una biblioteca. Incontrerete il frate domenicano amante dell’essenzialità, il maestro tardo-gotico che sapeva far risplendere l’oro… ma anche uno dei padri del Rinascimento italiano che portò la ricerca della luce e della prospettiva a un livello mai raggiunto prima. Ne sanno qualcosa Carl Brandon Strehlke, Stefano Casciu e Angelo Tartuferi: i tre curatori della mostra fiorentina, organizzata a settant’anni dalla monografica del 1955. Un passaggio di consegne, dunque, reso ancora più importante da restauri e indagini diagnostiche svolti ad hoc, nonché dalla possibilità di riunificare pale d’altare che erano state smembrate e disperse da oltre duecento anni. Non è un caso che l’attuale mostra abbia richiesto oltre quattro anni di preparazione, attingendo opere, oltre che dal Museo San Marco, da grandi realtà internazionali come il Louvre di Parigi e il MET di New York. «La mostra rappresenta un punto di arrivo imprescindibile per gli studi e le ricerche sul Beato Angelico – ha sottolineato Stefano Casciu –. Allo stesso tempo è il trampolino per futuri e appassionanti nuovi sviluppi e prospettive su uno dei massimi protagonisti dell’arte occidentale». Un artista che – parafrasando Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, «seppe fondere fede e arte coniugando il senso del sacro con una profonda attenzione all’umano».
Gli esordi
Riccioli d’oro, volto paffuto e un leggero rossore sulle guance: ha l’aria assorta questo Gesù Bambino mentre allunga una mano verso i fiori che gli porge la Vergine: una rosa bianca, simbolo di purezza, e una rosa rossa che rimanda alla Passione. Quando dipinse questa Maestà attorniata da angeli e santi (Pala di Fiesole, 1420-1423), Guido di Piero aveva circa 25 anni ed era entrato da poco nel convento domenicano di Fiesole con il nome di fra Giovanni, dopo aver trascorso i due anni precedenti a Firenze ad affinare le sue doti di «dipintore». Realizzata per l’altar maggiore della chiesa di San Domenico a Fiesole, la Pala viene modificata nel 1501 da Lorenzo Di Credi che ne cambia la forma, copre il fondo d’oro con una architettura e un paesaggio, e il trono della Vergine con un drappo. Se oggi, a distanza di 524 anni da quell’intervento, possiamo riscoprire l’opera originale, il merito è di un recente restauro e di una ricostruzione grafica eseguita in occasione della mostra fiorentina.
Ci troviamo nella Sala dell’Ospizio del Museo di San Marco, dove, fino al 25 gennaio, è allestita una sezione dedicata agli esordi dell’Angelicus pictor. Tra Madonne in trono e crocifissioni, assistiamo all’ascesa del frate da pittore tardo-gotico a precursore del Rinascimento. Non a caso, la sua Pala di San Pietro Martire (1422-’23) è sistemata a pochi metri dal Trittico di san Giovenale del Masaccio in un dialogo di continuità tra passato, presente e futuro.
Qualche passo più avanti l’evoluzione stilistica di fra Giovanni raggiunge una svolta con il Tabernacolo dei Linaioli (1432-’36), realizzato per l’Arte dei mercanti di lino su una cornice marmorea disegnata da Lorenzo Ghiberti: un trionfo di «colori oro et azzurro et ariento, de’ migliori et più fini che si truovino», come recita il contratto di «ingaggio». Dall’opulenza delle pale destinate alla ricca committenza, passiamo a una produzione dai toni più sommessi. Corre l’anno 1437 quando, per volontà di Cosimo de’ Medici, viene affidata all’architetto Michelozzo la ristrutturazione del Convento di San Marco, assegnato qualche anno prima ai domenicani osservanti di Fiesole, di cui il Beato Angelico faceva parte. Con l’occasione, al pittore viene commissionato un ciclo di affreschi per gli ambienti conventuali. Partiamo dal Chiostro di Sant’Antonino per ammirare il San Domenico in adorazione del Crocifisso (1441-1442 circa), capolavoro intriso di fede e dolore in cui il sangue gronda dalla croce e riga il legno come lacrime. Una visita alla Crocifissione nella Sala del Capitolo, e poi via sulle scale verso il dormitorio per lasciarci abbagliare da una delle opere più delicate e potenti del maestro: L’Annunciazione (1442 circa). Nei suoi affreschi a San Marco il Beato opta per toni tenui ed eterei, grazie anche all’utilizzo del bianco di San Giovanni (pigmento ricavato dalla calce). Vale per il San Domenico che abbraccia la Croce, per la Sacra conversazione (Madonna delle ombre) e per tutte le scene della vita di Cristo che il pittore realizza nelle 44 celle dei frati.
L’ultima parte della nostra visita al Museo San Marco passa per la Biblioteca che Cosimo de’ Medici fece realizzare all’interno del convento. È proprio qui che scopriamo il lato più «inedito» del Beato Angelico miniatore. Graduali, messali, salteri e antifonari non fanno che confermare la grande cura del maestro per i dettagli. Al di là del committente, del supporto e della finalità, ogni opera del frate è un capolavoro a sé.
L’arte del narrare
La seconda tappa del nostro viaggio è Palazzo Strozzi: sono otto le sale con cui l’edificio rinascimentale celebra il Beato Angelico e le sue opere, molte delle quali hanno subito nei secoli diverse manipolazioni. È il caso della Pala Strozzi (1421-’24, 1430-’32), iniziata da Lorenzo Monaco e completata dal frate pittore con la Deposizione e con profeti e santi nei pilastri. Collocata nella cappella principale della sagrestia di Santa Trinità a Firenze nel 1432, l’opera è costituita da una predella a scatola su un’unica tavola di legno che successivamente viene divisa in tre pannelli. Nonostante questa e altre modifiche apportate nell’Ottocento, la Pala resta l’ennesimo passo avanti dell’artista verso i canoni del ’500.
C’è però un’opera che più di tutte segna il passaggio del frate pittore al Rinascimento: la Pala di San Marco, realizzata tra il 1438 e il 1442 per l’altare maggiore dell’omonima chiesa fiorentina. Per la prima volta, qui fra Giovanni abbina alla monumentalità del formato quadrato la chiarezza narrativa della predella, organizzando lo spazio come un’architettura. Se possiamo osservarlo con i nostri occhi è grazie alla mostra fiorentina che – nonostante l’opera sia stata rimossa e smembrata a partire dal 1678-’79 –, ha ricomposto a Palazzo Strozzi diciassette delle diciotto parti note.
Il nostro viaggio prosegue alla scoperta delle crocifissioni sagomate, opere che uniscono pittura e scultura dal forte impatto emozionale: come la Crocifissione sagomata tra i santi Nicola di Bari e Francesco d’Assisi (1427-’30 circa), riunita per la prima volta al suo frammento originale (giunto dal Philadelphia Museum of Art e raffigurante san Francesco d’Assisi), rimosso prima del 1909.
Altro nucleo della mostra è dedicato all’iconografia della Madonna dell’umiltà (seduta in terra anziché in trono) e all’immagine isolata di Cristo, che il Beato Angelico e i suoi seguaci dipinsero in tavole per corporazioni, ospedali, spazi conventuali e ambienti domestici. Emblema di questa tendenza è il Cristo come Re dei re (1447-’50), dipinto su tavola in primissimo piano. Dagli occhi rossi e dal volto coronato di spine del Salvatore, passiamo allo sguardo rapito della Vergine, appena raggiunta dall’Arcangelo Gabriele nell’Annunciazione di Montecarlo (1432-’35). Sono lontani i toni eterei di quella affrescata dal frate nel suo convento. In quest’opera egli dà libero sfogo al colore e inserisce specchiature di marmo variopinte.
Superiamo crocifissioni, trittici, arazzi e miniature e ci fermiamo davanti alla Pala di Bosco ai Frati (1450-’52) per pregare con sant’Antonio, raffigurato a mani giunte, alla sinistra della Madonna, tra Ludovico di Tolosa e Francesco d’Assisi. Infine ci avviamo verso la conclusione della mostra per ammirare le Scene della vita di Cristo dipinte dal Beato Angelico e da Alesso Baldovinetti nell’Armadio degli Argenti (1450-’52), tabernacolo commissionato da Piero de’ Medici a Michelozzo per ospitare gli ex voto nella Basilica della Santissima Annunziata. Mentre osserviamo le trentacinque tavole contraddistinte da monumentalità e minuzia narrativa, l’impressione è quella di esserne anche noi parte. Del resto, non c’è storia più grande e attuale di quella raccontata nel Vangelo e fra Giovanni da Fiesole, da uomo di fede e grande narratore qual era, lo sapeva bene. Lungo la sua carriera egli «ha saputo illustrare le storie sacre in una maniera molto umana» ha spiegato a margine della mostra il curatore Carl Brandon Strehlke. Una caratteristica che ha reso il Beato Angelico, al di là di mode, stili e correnti, «un pittore per tutti i tempi».
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