Dove va l'Europa?
L’Europa svolta a destra, l’esito è evidente dopo le elezioni dell’8 e del 9 giugno, anche se la maggioranza, capitanata dal Partito Popolare Europeo, sembra tenere. Che cosa significa? Che le forze nazionaliste ed euroscettiche avranno sempre più spazio? Che il processo di integrazione europea è destinato a rallentare o a involvere? Questi i dubbi, mentre l’iter che porterà all’inizio della decima legislatura dell’Unione Europea in questo mese di luglio appare da subito complesso e travagliato, con le nomine ai posti cardine dell’Unione Europea alquanto controverse e l’incognita delle elezioni anticipate in Francia. Non abbiamo la palla di vetro per predire come finirà la partita, ma quanto uscito dalle urne conferma tendenze già in atto, permettendoci di capire dove sta andando l’Europa e che cosa le servirebbe per diventare una forza credibile nello scacchiere del mondo. Un’analisi che abbiamo chiesto a Gianluca Passarelli, professore in Scienze politiche alla Sapienza di Roma e autore del libro Stati Uniti d’Europa, un’epopea a 12 stelle (Ed. Egea, 2024).
Msa. Anche nelle elezioni europee più che un orientamento politico ha vinto l’astensione. Che cosa significa?
Passarelli. È un segno di disaffezione generale verso il voto, molto preoccupante, che la politica dovrebbe prendere in seria considerazione, in quanto non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di una tendenza che si è strutturata nel tempo. In Italia, in particolare, non ha giovato una campagna elettorale che è stata molto autoreferenziale e dove non c’è stato dibattito, in quanto nessuna delle parti l’ha veramente cercato.
Secondo lei, gli italiani stanno diventando euroscettici?
In generale gli italiani sono sempre stati molto aperti verso il progetto europeo. All’inizio anche per una questione utilitaristica, visti i servizi, i beni e i fondi che venivano dall’Europa. L’adesione più identitaria è arrivata dopo e gradatamente. Nell’insieme io credo che gli italiani non siano tra i più critici dell’Europa, perché – e questo è rassicurante – mettono in discussione il governo pro-tempore dell’Europa ma restano favorevoli al progetto europeo.
L’onda euroscettica, tuttavia, è una realtà in tutta Europa. Che cosa abbiamo perso per strada?
La consapevolezza che, a prescindere da qualsiasi orientamento politico, l’Unione Europea è la più grande costruzione politica nella storia dell’umanità, quindi degli ultimi 5, 6 mila anni. E questo per due ragioni. La prima è di metodo, che è democratico: i Paesi che fanno parte dell’Unione hanno deciso in autonomia di aderire al progetto, accettando di cedere in modo pacifico alcune parti di sovranità. E possono liberamente decidere di uscirne. La seconda ragione è di merito: i Paesi hanno ceduto all’Unione Europea alcune tra le funzioni più forti, tipiche degli Stati Nazionali in campo economico, giuridico e militare, senza far ricorso a guerre e violenze. Poi possiamo discutere se il livello raggiunto sia più o meno sufficiente, ma il grado d’integrazione attuale non è mai stato toccato da altri tentativi analoghi. Ecco perché il modello europeo è attraente, mentre altri modelli che si basano sulla sopraffazione non lo sono.
Perché un modello di questo tipo è nato proprio in Europa e non in altre parti del mondo?
L’Europa è la culla della civiltà e della cultura, ma è anche la culla della guerra, il continente in cui le divisioni sono state più aspre e più violente, fino ad arrivare alle due guerre mondiali, al baratro dell’Olocausto e alle porte dell’autodistruzione. Di fronte a questo buio dell’umanità, ci sono stati uomini e donne che hanno creato un progetto sovranazionale per porre fine al disastro delle contrapposizioni e dei nazionalismi. Diceva Jean Monnet, politico francese e tra i fondatori dell’Unione Europea, che l’Europa si è forgiata sulle risposte che ha saputo dare alle crisi. È successo anche dopo il covid, passando dall’austerità voluta dall’asse scandinavo-tedesco a una politica pubblica espansiva, culminata nel PNRR.
Oggi, però, gran parte dei Paesi fondatori sono in crisi proprio per l’avanzata di partiti euroscettici e neonazisti.
È una crisi che viene da lontano, ma che può ancora essere governata se il prossimo governo dell’Unione saprà dare risposte adeguate. Il nazionalismo c’è sempre stato e sempre ci sarà, ma può avere sbocchi molto diversi. Se è di tipo patriottico può convivere con il progetto federale dell’Unione Europea, che è di fatto – come dice il Trattato di Lisbona – un’unità nella diversità. Se invece diventa volontà di imporsi sugli altri, il risultato è totalmente diverso. È in atto una crisi, che va capita. Se le destre estreme e nazionalistiche oggi sono sempre più votate, bisogna domandarsene la ragione. Inutile trincerarsi dietro la propria verità e dire che gli elettori sono sbagliati e i partiti sono pericolosi. Che risposte hanno dato coloro che hanno guidato finora l’Europa? Hanno saputo creare un’Europa più sociale, meno burocratica, più politica? Se i cittadini non hanno percepito un cambiamento positivo, vuol dire che non è stato fatto abbastanza, spesso anche a livello di comunicazione. Per esempio, ho la percezione che il Green Deal (il pacchetto di politiche per la transizione verde) sia stato inteso da imprese e cittadini come meno industrie e meno lavoro, invece che come una nuova rivoluzione industriale, con notevoli vantaggi per tutti. Il problema è politico: se non c’è un intervento sulle riforme istituzionali, rischiamo che la crisi diventi strutturale.
Che conseguenze ha un eventuale indebolimento dell’Unione Europea?
Ha grandi conseguenze per il futuro di tutti i Paesi d’Europa, anche di quelli che sono o si credono più forti. Le «grandi economie» non sono più quelle del G7. Gran Bretagna, Italia e Francia sono dopo la settima posizione; regge la Germania, ma fino a quando? Incalzano la Cina, l’India... Solo insieme i Paesi europei diventano la seconda forza economica al mondo e possono incidere, mentre nessun Paese europeo da solo è significativo. Per vincere le sfide di oggi – clima, intelligenza artificiale, agricoltura – c’è bisogno di maggiore integrazione, non di minore. Non ne faccio una questione di valori, ma di bieco realismo. Oggi, per essere davvero nazionalisti e patriottici bisogna stare in Europa, altrimenti ci si condanna a essere satelliti di Paesi più forti.
La Brexit sta causando alla Gran Bretagna notevoli problemi economici, sociali e geopolitici e i più danneggiati sono proprio le persone e i settori che la Brexit prometteva di salvare, come i pescatori della Cornovaglia. Il nazionalismo portato alle estreme conseguenze si è rivelato un boomerang. Come mai un esempio così lampante non è entrato nel dibattito pubblico europeo e italiano in particolare?
Per mancanza di consapevolezza e forse anche per presunzione. Noi ci reputiamo ancora al centro della Storia, ma che cosa sa uno studente cinese o indiano di noi? Invece di stare uniti e dire la nostra su settori in cui ancora siamo forti, come l’intelligenza artificiale, ci comportiamo come una vecchia famiglia aristocratica, che si compiace degli araldi esposti sulle mura del palazzo, ma ha perso i suoi contadini, e i suoi terreni non valgono più nulla, mentre ha sempre meno popolazione, esercito, tecnologia.
Lei ha più volte affermato che per fare uno Stato, e di conseguenza anche un sovra-Stato, ci vogliono tre cose: la moneta, la bilancia e la spada. Come siamo messi?
Per quanto riguarda la spada, ovvero la forza militare, abbiamo ceduto la nostra difesa agli Stati Uniti. C’è stato un tentativo di formare un esercito europeo già nel 1954, fallito per l’opposizione della Francia, è stato il primo tentativo di integrazione, antecedente all’accordo del carbone e dell’acciaio. Se si vuole contare anche sul piano diplomatico e nei tavoli per la pace è necessario avere una forza di difesa e una politica estera unitaria degna di questo nome. Con la spada, insomma, siamo indietro.
Va meglio con la moneta e la bilancia?
Sì, dal punto di vista economico l’integrazione è più avanzata, anche se ci vorrebbe una forte accelerata sulla politica fiscale comune; insieme potremmo meglio combattere l’evasione, imporre tributi alle grandi compagnie multinazionali come Amazon e avere maggiori risorse per le politiche sociali, che caratterizzano l’Europa. La giustizia, invece, sembra la meno integrata ma in realtà è quella che ha fatto più passi in avanti. Lo si constata già in varie materie: di polizia giudiziaria, di sanità, di sicurezza alimentare.
Che cosa possiamo aspettarci per il prossimo futuro?
L’esito più probabile è un periodo d’incertezza, la crisi è innegabile. Ma come diceva Jean Monnet «L’Europa si forgia dalle crisi».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!