Globalizzazione della salvezza

Oggi salvezza è tornata a essere parola quotidiana, laica, nostra. E la pandemia ci ha mostrato che non è possibile salvarci da soli, bensì riconoscendoci unica comunità umana.
19 Gennaio 2022 | di

Salvezza. È la nostra parola di credenti. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», dice la professione di fede in Gesù, che in ebraico è Yehoshu’a, cioè Giosuè, che vuol dire «Dio è salvezza», «Dio salva». Per gli ebrei, popolo nato dalla fragile consistenza di una voce che ha chiamato per nome un uomo vecchio e senza figli – popolo per secoli senza terra e senza protezione, schiavo, in fuga, sottomesso – di volta in volta la salvezza ha una qualità precisa che può essere nominata. In Egitto si chiama libertà dalla schiavitù, fuga silenziosa nella notte, ogni passo protetto dal «grande grido», altissimo lamento di chi ha perso il figlio primogenito, «dal Faraone che siede sul trono fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame» (Es, 29).

Egiziani oppressori, ma genitori schiantati dal dolore. Mistero tremendo di una salvezza che si accompagna alla morte ma non per un qualche contrappasso pagano. È il cuore indurito che non vede il male del proprio agire e il male esonda e sommerge, guai a dargli principio. Nel deserto, poi, la salvezza è la purezza dell’acqua che sgorga dalla roccia e salva uomini e animali, e anche la fede, per un poco almeno. E ancora è la manna, candida, pane leggero dal cielo, donato e mai accumulato. Nella Palestina dominata dai Romani, la salvezza è il sogno di un Messia regale che restituisca la libertà, di nuovo la libertà. Ancora sangue, dunque? No, niente guerra, nessun nuovo re, nessun nazionalismo ipertrofico da esibire, nessuna sacra rivincita.

Salvezza è la grazia di convertire il cuore dal potere al servizio. In nome di Dio, non essere dio. Una liberazione che si allarghi al mondo, anche a chi opprime. Essere luce, che permette al mondo di vedere il proprio essere malato di possesso. Anche morire, sì, ma noi, non i nostri nemici. Come capita a Gesù. Questa è la vita: servire la vita fino a morire. Una salvezza difficile da raccontare e infatti noi cristiani abbiamo parlato di salvezza con una prudenza sempre crescente nel nostro tempo della modernità, giustamente gagliarda per la qualità delle sue vittorie sulla fame, le avversità, le malattie, e davvero il nostro progresso ci ha fatto pensare che almeno la salvezza materiale fosse vicina vicina.

E anche per le libertà ci siamo attrezzati bene, con la lenta conquista dei diritti fondamentali. Vita, libertà, ricerca della felicità, uguaglianza, equità. È luce nella storia dell’umanità questo progresso dei diritti. Ma non per tutti, questo è il punto. Anche il bene del progresso ha diviso noi da chi è senza benessere e senza diritti. Non ci muoviamo come una comunità. Ed ecco che oggi salvezza è tornata a essere parola nostra quotidiana, laica, umana: salvare le foreste dalla distruzione, gli animali dall’estinzione, gli uomini migranti dalla morte, le donne dalla violenza, i bambini dalla fame, ancora dalla fame, e quanti.

E ora i malati, così tanti malati di una pandemia che facciamo una fatica tremenda a contenere. E c’è diffusa la tentazione di trovare un nemico preciso da chiamare per nome e cognome e poter combattere, mettere al muro, morte all’oppressore. E invece stavolta è proprio impossibile. C’è un virus che ci ricorda che non possiamo salvarci solo noi, con le nostre famiglie, le nostre terre, i nostri Paesi, e che i muri sono inutili, sbagliati, disumani e anche ridicoli, dal momento che la storia li ha via via abbattuti tutti con gran disprezzo verso i costruttori. Non c’è difesa possibile che non sia il riconoscerci unica comunità umana: prevenzione per tutti, cure per tutti, benessere condiviso. Una globalizzazione della salvezza, si può dire così? 

 


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Data di aggiornamento: 21 Gennaio 2022

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