I signori della guerra

Da decenni nella Repubblica Democratica del Congo si combatte una guerra di cui la popolazione civile sta pagando il prezzo più alto. Alla base del conflitto, il controllo di una delle regioni più ricche del pianeta in termini di risorse del sottosuolo.
09 Aprile 2025 | di

Arrivano alla spicciolata, gli uomini di Ruthsuru. Imbustati nei loro abiti migliori, lo sguardo fisso sulle scarpe gelosamente conservate per le funzioni domenicali, s’incamminano, incerti, tra i miliziani tutsi disposti lungo la strada del villaggio, in un cordone bellicoso e carnevalesco da cui esala un forte odore di alcol a buon mercato e una manifesta propensione alla violenza indiscriminata. All’altezza della stazione radio del villaggio, distrutta pochi giorni prima, gli uomini si incolonnano in attesa di essere identificati. Poi, uno alla volta, in silenzio, svaniscono nella penombra dell’aula della scuola in cui sono stati convocati per la seduta di rieducazione politica, e prendono posto su banchi ridicolmente piccoli, destinati ai bambini. Alle loro spalle, appoggiati ai muri, i miliziani tutsi imbracciano i kalashnikov.

Il generale rinnegato Laurent Nkunda, tutsi, psicologo, sedicente pastore della Chiesa avventista del settimo giorno, leader del C.N.D.P, cammina nervosamente nella stanza, circondato dal suo stato maggiore. Poi si ferma. Appoggia le mani sulla scrivania. Si guarda intorno, lentamente, indugiando sui volti. «Un albero può morire – dice –. E restare in piedi. Può marcire. E restare in piedi. Ma anche un popolo può morire, e marcire, e restare in piedi. Sono qui per informarvi, signori, che anche voi siete morti, e state già marcendo».

Nell’aula, il silenzio è spettrale. Il signore della guerra cita la Bibbia. Interi passi a memoria. Azzarda parallelismi audaci tra il popolo ebraico e il popolo tutsi, sostenendo il suo diritto di difendersi. Si sofferma su Ezechiele: «Le colpe dei padri – ricorda – ricadono sui figli. Gli hutu sono colpevoli di genocidio fino alla settima generazione». Sulla mimetica porta una spilla: «Rebel for Christ», ribelle per Cristo. 

Pochi giorni prima, il 7 e 8 novembre 2008, le sue milizie hanno massacrato 150 civili nella vicina cittadina di Kiwanja, sede di un’importante base della Monuc (Missione ONU Congo). L’eccidio è durato per ore. I caschi blu hanno osservato la strage, frementi di rabbia, in attesa di ordini che non sono mai arrivati. I cancelli sono rimasti chiusi. Da quando il generale ribelle dell’esercito congolese Laurent Nkunda ha fondato il movimento politico militare C.N.D.P. – Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo – composto perlopiù da combattenti ruandesi, e preso il controllo di alcune località del Massisi e del Nord Kivu, minacciando di conquistare Goma, centinaia di migliaia di disperati si sono raccolti nei pressi di Kibati, alle porte della capitale. Manca tutto: cibo, acqua, medicine.

Lo scopo dichiarato del generale Nkunda – lo stesso scopo dichiarato oggi dai ribelli dell’M23 – è quello di difendere i tutsi congolesi, i Banyamulenge, dalle violenze – ipotetiche – delle milizie hutu ruandesi, riunite nelle Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR). Di fatto, è un’operazione di war making: agendo sulla leva etnica, che rimanda al genocidio ruandese, si può riaccendere il conflitto con la stessa facilità con cui si preme un interruttore, e inserire così una guerra di rapina in una cornice di legittimità. Tra il 2006 e il 2009 il CNDP prende il controllo di una delle regioni più ricche del pianeta in termini di risorse del sottosuolo, in particolare oro, diamanti, cobalto, rame e soprattutto coltan, a tutto vantaggio dei finanziatori della ribellione. Tra i quali figura, oggi come allora, il vicino Ruanda: stando a un recente rapporto delle Nazioni Unite, che ne hanno bloccato temporaneamente le importazioni, il coltan esportato dal Ruanda proviene da Rubaya, una località congolese occupata, nell’aprile 2024, dall’M23, movimento ribelle nato dalle ceneri del CNDP del generale Nkunda.

Dal CNDP all’M23

Il signore della guerra Laurent Nkunda, divenuto eccessivamente scomodo a causa delle accuse mosse, nei suoi confronti, dalla Corte penale internazionale, viene arrestato nel gennaio del 2009 durante una operazione militare congiunta degli eserciti della RDC e del Ruanda. Paese dove ancora risiede, agli arresti domiciliari, nonostante Kinshasa ne abbia chiesto più volte l’estradizione.

Il 23 marzo 2009 il C.N.D.P firma un patto con Kinshasa, che prevede l’integrazione dei combattenti nelle file dell’esercito congolese. Tra il 2009 e il 2012, l’esercito congolese (FARDC- Forze Armate Repubblica Democratica del Congo) organizza varie spedizioni militari nel Nord Kivu e nel Massisi, nel tentativo di annientare le forze del Fronte democratico di liberazione del Ruanda, alleate con diversi gruppi di May May (gruppi di autodifesa), alle quali partecipano, spesso, ufficiali tutsi ruandesi. Gli stupri di massa e le violenze, commessi con lo scopo di forzare la popolazione ad abbandonare aree ricche di risorse minerarie, raggiungono livelli mai conosciuti prima. Nel 2012 gli ex militari tutsi del CNDP si ribellano nuovamente, dichiarando che i patti stretti con il Governo non sono stati rispettati. Nasce così il movimento M23, che converge nell’Alleanza del Fiume Congo, un’organizzazione politico-militare che si oppone al presidente congolese Félix Tshisekedi

Corneille Nagaa, ex presidente della commissione elettorale ed ex sostenitore dello stesso Tshisekedi, è oggi il capo politico del movimento, mentre il comandante militare dell’M23 è Sultani Makenga, combattente di lungo corso, strettamente legato a Laurent Nkunda, con cui ha combattuto tra le fila dell’Rpf guidato dal presidente ruandese Paul Kagame, e il suo luogotenente Bosco Ntaganda, condannato a trent’anni di carcere dalla Corte penale internazionale per stupri di massa e vari crimini, tra cui l’arruolamento forzato di bambini soldato.

La conquista di Goma e Bukavu

Mentre gli scontri continuano nella provincia mineraria del Nord Kivu, aggravando una crisi che in un decennio ha causato milioni di morti e sfollati, il 27 gennaio 2025 l’M23 marcia sulla capitale del Nord Kivu, Goma, e la conquista. Il problema è che non è in grado di controllarla. «Siamo scappati di notte, e ci siamo rifugiati in Uganda - racconta C.M. -. Abbiamo visto molti cadaveri lungo la strada, ma identificare gli autori dei massacri è difficile, tutti indossano le stesse divise, imbracciano le stesse armi, parlano la stessa lingua. Ancora oggi la città è molto insicura: si sono formate sacche di resistenza nei sobborghi della capitale, composte perlopiù da soldati sbandati delle FARDC (Forze Armate Repubblica Democratica del Congo), wazalendo (in swahili: patrioti) e banditi comuni che stuprano, razziano, attaccano i civili. Qui, in questo campo, non abbiamo nulla. Una bottiglia di acqua sporca, raccolta a terra, costa 1 dollaro e mezzo. Io e la mia famiglia ci siamo costruiti un riparo con dei mattoni di fango e dei teli di plastica. Ma le condizioni sono disumane».

Le pressioni internazionali e soprattutto l’iniziativa della Conferenza episcopale nazionale del Congo, i cui inviati hanno raggiunto Goma il 12 febbraio, accompagnati dai delegati protestanti della Chiesa di Cristo in Congo, hanno ottenuto un fragile «cessate il fuoco», che da subito è apparso più simile a una pausa tattica utile a riorganizzare le truppe. Il 26 febbraio l’M23 ha preso il controllo di Bukavu, capitale del Sud Kivu. Non c’è certezza sui numeri, ma il bilancio sembra essere compreso tra i 3mila (ONU) e i 6mila morti (fonti locali).

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Data di aggiornamento: 09 Aprile 2025
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