Il Ramadan di Gaza
C’è stato un momento di illusione. Una notte sospesa. Una notte in cui sembrava di poter dimenticare senza dimenticare. Almeno questa era la sensazione che avevamo a guardare le foto della grande tavola a cui erano sedute decine e decine di gazawi, i cittadini di Gaza, nel primo iftar, la prima cena della rottura del digiuno nei giorni di Ramadan. Un mese fa cominciava il mese più sacro del calendario islamico, il mese della purificazione, e, dopo sedici mesi di guerra, la tregua era cominciata da meno di due settimane. Quelle foto erano tragiche e meravigliose: la tavolata, lunga centinaia di metri - una tovaglia rossa e una fila di lucine multicolorate, piccole bandiere palestinesi a sventolare come panni stesi -, era stata montata tra le macerie in cui è ridotta Rafah, la città che non esiste più ai confini con l’Egitto. Vi era così poco da mangiare, ma ritrovarsi tutti assieme, senza paura, era già un conforto, una speranza.
Nel mese del Ramadan (in cui fu rivelato il Corano), si digiuna dall’alba al tramonto. Ci si ritrova, con la famiglia, con gli amici, tra vicini, per la cena serale. Si accendono lanterne e luci colorate. C’è un’aria che, a noi cattolici, appare natalizia.
Poi, il terribile risveglio. Non è stata concessa nemmeno questa illusione a Gaza. Fin dall’inizio del Ramadan, Israele ha chiuso qualunque porta d’accesso alla Striscia, non è più entrata una sola bottiglia d’acqua o un sacco di farina. Medici Senza Frontiere denuncia che non vi sono più farmaci: «Amputiamo braccia e gambe senza anestetico. Conserviamo le fiale per i bambini». La tregua non è arrivata all’Eid al Fitr, la festa della fine del digiuno, che cadrà nei prossimi giorni, tra il 30 e il 31 di marzo (dipende dalla Luna). Le bombe di Israele non hanno rispettato nemmeno il Ramadan: poco prima del Suhoor, la colazione, il pasto consumato prima dell’alba, del 18 marzo, gli aerei israeliani hanno spezzato la tregua e scatenato un inferno su Gaza. Erano certi che vi sarebbero state molte, moltissime vittime civili. Che sarebbero morti centinaia di bambini. E così è stato: secondo fonti palestinesi almeno 170 bambini sono stati uccisi, tra 600 e 900 le vittime totali. A Gaza ora non c’è acqua: né per i vivi, né per lavare i corpi dei morti. Non c’è elettricità. Noi, in questa Europa così impotente, non possiamo immaginare cosa prova il cuore di un bambino a Gaza. Che cosa si porterà dietro, se sopravvivrà, nel suo futuro.
Un amico algerino mi invia un messaggio Instagram di una ragazza gazawi: «Nei prossimi giorni, pregate per noi. Abbiamo bisogno delle vostre preghiere». A gennaio, papa Francesco, durante l’udienza generale, pronunciò lo stesso appello: «Preghiamo per Gaza. Preghiamo per la pace».
Non sarà un giorno di festa Eid al-Fitr, non ci sarà l’allegria sempre presente nelle ore in cui il Ramadan finisce. Dovremo leggere e rileggere una poesia dolorosa di Rafeef Ziadah, poetessa palestinese-canadese, nata a Beirut. Racconta di Hadeel, una bambina di nove anni: «Chi lo dirà alla madre di Hadeel / Intenta a cuocere pane e za’atar / Che le colombe non voleranno più su Gaza / Hadeel se n’è andata e suo fratello Ahmed ha perso la vista / Le colombe, le colombe, le colombe non voleranno più su Gaza». Hadeel, e il suo nome significa «verso della colomba», venne uccisa nella Striscia, nel già lontano 2011. Rafeef disse che scrisse questa poesia perché aveva ascoltato, durante un telegiornale, la notizia della morte della bambina e della cecità di suo fratello ed era rimasta ferita dal tono «irrilevante» con il quale una simile tragedia venne detta.
Rileggo, e mi aggrappo, invece, a una poesia che citai lo scorso anno. E mi accorgo di come in un anno anche la speranza sia svanita. Per il Ramadan usai le parole di un’altra poetessa, la siriana Maram al-Masri: «Preparerò un mondo / dove non esistono la armi / né la guerra. / Un mondo dove le madri / non fanno distinzione fra i propri figli / e i figli di un’altra donna. / Un mondo che non fa differenza / fra gli uomini / un mondo nuovo / dove non entrano né la gloria / né la sconfitta. / Un mondo / dove nessuno è senza casa / e dove nessuno muore / di freddo o di fame». È tempo che Gaza rinasca. Che ci sia cibo su una nuova tavolata dei suoi abitanti. Che ci sia acqua. Che ci siano nuove case. Che i bambini possano vivere e giocare.
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