Pace, il seme più piccolo
Papa Francesco chiede che «il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo», e aggiunge che gran parte dell’umanità è devastata dalla «tragedia della guerra» (Spes non confundit 8). Noi umani parliamo di pace in relazione alla guerra e invochiamo la pace come fine di una guerra. Così, il pensiero della pace è subordinato al pensiero della guerra: la pace ha bisogno della guerra per esistere. Può essere più utile interrogarsi sul «terribile amore per la guerra» (James Hillman) che abita l’uomo, e ricordare le parole di Eraclito: «Pólemos (guerra) di tutte le cose è padre».
La Bibbia, che in tante pagine che grondano sangue narra guerre e violenze, osa l’operazione di smascherare la violenza e la guerra denunciandole come grave peccato. Sono i regimi totalitari che occultano la violenza e bandiscono la parola «guerra» camuffandola dietro qualche eufemismo. La Bibbia guarda in faccia la violenza, mostra la guerra nel suo carattere odioso e così riesce a formulare la speranza di un mondo liberato dalla guerra come appare nelle profezie di Isaia (2,2-5) e di Michea (4,3-5): «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci, una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più a fare la guerra» (Is 2,4). Utopia? Certamente, come lo è l’ideale di una fraternità e sororità universale che è un altro nome di quel Regno di Dio che è al cuore dell’annuncio di Gesù.
Ma che cos’è l’utopia? «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a che cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare» (Eduardo Galeano). E poiché l’uomo cammina nell’oggi grazie alla speranza (homo viator spe erectus) e la speranza, per essere autentica, abbisogna di zone di realtà che anticipino nell’oggi qualcosa del suo compimento, occorre dare un luogo al futuro e creare delle eutopie, cioè dei luoghi, delle esperienze storiche, che si caratterizzino per ciò che è significato dal prefisso «eu», bene. Spazi di condivisione e convivialità, partecipazione e solidarietà, di scambio delle storie e delle narrazioni, che danno senso all’oggi e aprono al futuro. Le eutopie sono luoghi di salvezza dell’umano, dove la singola persona umana è considerata nella sua piena dignità per il suo semplice essere un umano, prima di qualsiasi specificazione o attributo. Sono luoghi in cui la parola pace trova tutta la sua consistenza e si arricchisce del senso che ha il biblico shalom. Che è un concetto globale che implica dimensioni relazionali e sociali, psicologiche e spirituali, economiche e politiche.
A questo fine occorre sviluppare una cultura della cura, che è l’esatto contraltare della cultura della guerra. Nella guerra l’altro è nemico da eliminare, l’habitat viene distrutto, alla logica della custodia si sostituisce quella della distruzione, la solidarietà è scalzata dall’inimicizia. Purtroppo il terribile amore per la guerra rende la cultura bellica decisamente preponderante rispetto alla cultura della cura, come si è visto durante la pandemia, quando la metafora bellica è stata universalmente usata mentre l’immagine rispondente alla realtà era quella della cura.
Ci potremmo chiedere se anche le «eutopie» non siano esse stesse delle utopie. Ma la risposta è nella realtà. Si pensi all’esperienza di Nevè shalom – Waahat as-salam, villaggio di pace fondato negli anni ’70 da Bruno Hussar a ovest di Gerusalemme, che mostra la concreta possibilità di convivenza pacifica di ebrei e palestinesi, o a Rondine, Cittadella della pace, vicino ad Arezzo, che facendo convivere giovani appartenenti a nazioni in guerra tra loro attua un lavoro di educazione alla pace. E mi limito a questi due esempi. Che ci mostrano che solo l’amore per il nemico (non semplicemente per il prossimo) può sconfiggere il terribile amore per la guerra. «Il più grande eroe è colui che trasforma il suo nemico nel suo amico» (’Abot R. Natan A 23).
E non sono forse eutopie le comunità cristiane di cui il cardinal Martini parlava come di comunità alternative, che accordano il primato a valori disattesi nel mondo come il servizio, l’inclusività, l’accoglienza, il perdono, il riconoscimento, la condivisione? E non lo sono anche quelle esperienze di «resistenza-creazione» che designano le forme di nuovi modi di vita ispirati a sobrietà, solidarietà, modelli alternativi di relazioni e consumo, di cui parlano Benasayag e Cohen (L’epoca dell’intranquillità. Lettera alle giovani generazioni)? Si potrà dire che sono esperienze «piccole». Ma proprio nella loro piccolezza stanno all’interno della logica del Regno di Dio, per cui il seme più piccolo diventa l’albero più grande.
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