Il dialogo batte la punizione
Gli adolescenti sono in crisi. Lo testimoniano i tanti fatti di cronaca che li vedono coinvolti: dalla distruzione di beni altrui al bullismo e cyberbullismo, dall’aggressione degli insegnanti fino a gravissime violenze sessuali su bambine e ragazze. Lo testimoniano, per altro verso, anche i dati. Una recente ricerca dell’Istat rileva che sono raddoppiati negli ultimi due anni gli adolescenti insoddisfatti della vita o che accusano una sofferenza mentale. Potremmo addurre mille motivazioni per cercare di spiegare tanto disagio, ma un punto fondamentale è capire se c’è un modo di rispondere, e possibilmente prevenire, a quella che sembra una deriva aggressiva in costante aumento, senza perdere i ragazzi e tutelando la collettività.
La bella notizia è che un modo c’è e che funziona in buona parte dei casi; la brutta è che, nonostante esista da tempo, è poco conosciuto e, soprattutto, poco praticato. Si tratta del metodo della giustizia riparativa applicato al tempo della scuola, prima, cioè, che il disagio sfoci in comportamenti più gravi e più difficili da arginare. «Per la verità la scuola ha da sempre il compito di educare gli studenti – afferma Claudia Burlando, volontaria Asai, associazione di Torino che lavora dal 2012 nella giustizia riparativa in ambito penale minorile e, dal 2020, nell’ambito della scuola –. La scuola che adotta un approccio riparativo in risposta a comportamenti devianti ripristina e rafforza questo compito».
Ricostruire le relazioni
Le scuole riparative sono quelle scuole che affiancano alle sanzioni tradizionali un particolare percorso di mediazione e riparazione del danno. Il fine non è più quello di punire o isolare chi ha compiuto un’azione negativa, ma di ricostruire la relazione con la vittima e, per esteso, con la comunità in cui vive: «L’adesione al percorso riparativo è su base volontaria e gratuita e ha due vantaggi – spiega Claudia –: consente al ragazzo o alla ragazza che ha sbagliato di diventare consapevole del proprio errore e di vedere anche il punto di vista della vittima, mentre permette alla vittima di essere ascoltata e di avere voce in capitolo nel processo di riparazione. Il punto di svolta è arrivare a una "restituzione": ovvero il colpevole non solo riconosce il danno procurato, ma compie un percorso di riparazione a vantaggio della vittima e della comunità, esprimendo e spesso scoprendo parti positive di se stesso». Un protagonismo costruttivo nell’uno e nell’altro caso, che in una normale sanzione non avrebbe luogo. Il colpevole rimarrebbe colpevole e verrebbe identificato solo con il suo errore, mentre la vittima rimarrebbe vittima, senza poter riconquistare la propria dignità agli occhi del reo e della classe. La frattura rischierebbe di produrre altre fratture, divisioni, pregiudizi, perpetuando il danno. La giustizia riparativa offre invece uno spazio protetto, dove vittima e colpevole possono incontrarsi, parlare, confrontarsi, accompagnati da persone adeguatamente formate.
Di solito avviene così: l’insegnante che ha fatto una formazione specifica in questo tipo di giustizia rileva il problema e lo porta all’attenzione del consiglio di classe e della dirigente. Nel caso di Torino, a questo punto viene chiamata Asai, che per la sua esperienza in giustizia riparativa collabora con sei scuole cittadine. Asai partecipa con un volontario o una volontaria al consiglio di classe straordinario, in cui sono presenti tutte le parti in causa e dove viene deciso il percorso riparativo. Tale percorso oltre a non essere punitivo deve essere tagliato sulle inclinazioni del soggetto che ha commesso l’ingiustizia o il reato. Nella stessa riunione viene deciso anche il tutor che lo seguirà. «Il percorso dev’essere sufficientemente lungo da permettere al ragazzo o alla ragazza di dimostrare il suo valore e deve essere fatto in orario non scolastico, per non escluderlo dalla propria classe. Generalmente dura due o tre mesi, un pomeriggio alla settimana».
Due le tipologie di riparazione prevalenti: un servizio che il ragazzo compie in un grado di scuola inferiore al suo, per esempio aiutando gli insegnanti delle elementari in un’attività, o un’azione che va a migliorare l’aspetto estetico o funzionale della propria scuola. «Per esempio, abbiamo affidato a un ragazzo delle medie, che disturbava pesantemente insegnanti e compagni durante le lezioni, la conduzione di alcuni giochi in una classe delle elementari. Ha sperimentato in prima persona la difficoltà di gestire una classe e l’importanza di seguire le regole per poter portare a termine il proprio compito. Un’esperienza che lo ha fatto molto riflettere sul proprio comportamento, facendogli comprendere il danno arrecato alla classe».
Un esempio del secondo caso è capitato proprio a Claudia: «Aldo (nome di fantasia), 13 anni, è un ragazzo ingestibile in classe, di quelli che tutti sperano rimanga a casa. Madre iperprotettiva, padre ai domiciliari, basso apprendimento, un fisico molto grande rispetto alla sua età. Ha aggredito un’insegnante e la scuola ci ha chiamato. Conveniamo che non ha gli strumenti scolastici per poter fare un’esperienza alle elementari, ma ha un interesse per l’arte. L’assemblea decide che la sua riparazione sarà abbellire una parete esterna della scuola, particolarmente brutta e grigia, con un murales. Io sono nominata sua tutor; mi faccio aiutare dall’insegnante d’arte, perché non ho competenze in materia. Io e Aldo ci ritagliamo un pomeriggio alla settimana. Giorno dopo giorno si crea una relazione molto positiva tra di noi, lui mi racconta cose importanti che mi aiutano nel suo percorso. È gentile con me, porta i pesi e dipinge là dove io non arrivo. Giorno dopo giorno Aldo si accende come la tavolozza dei nostri colori. Non è più l’Aldo che disturba, che aggredisce, che non è bravo a scuola, è l’Aldo che è riuscito a fare, con grande impegno, uno splendido murales per tutti. Quel murales che ha restituito con orgoglio alla scuola in una festa, organizzata dalla dirigente».
Scuole riparative in Italia
Le esperienze riparative non sono la «bacchetta magica», ma hanno una percentuale altissima di successo. Il problema è che non nascono dal nulla, ma sono frutto della cultura riparativa che si è sviluppata in un territorio. Hanno bisogno, cioè, di una comunità educante dentro e fuori la scuola. Come nel caso di Asai e delle sei scuole di Torino. E questo è sempre più difficile in un tempo in cui la politica non investe sulla scuola e la scuola stessa è diventata un «progettificio», dove la burocrazia viene prima dei ragazzi.
Per questo le scuole riparative sono presenti a macchia di leopardo nel territorio nazionale, là dove per varie circostanze la cultura riparativa ha attecchito. Un’attenzione che per la verità sarebbe prescritta dalla legge: lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti (DPR 24 giugno 1998, n. 249, modificato DPR 21 novembre 2007, n. 235) chiaramente dice che le sanzioni siano «ispirate, se possibile, alla riparazione del danno» e che «allo studente deve essere offerta la possibilità di convertirle in attività in favore della comunità scolastica». In realtà la giustizia riparativa è vecchia quanto il mondo, annota Claudia: «La praticavano già in molte culture antiche. Gli aborigeni australiani, per esempio, di fronte a un comportamento antisociale di un giovane, preferivano recuperarlo attraverso pratiche riparative, piuttosto che perdere un membro della comunità».
Da due anni a questa parte la giustizia riparativa ha però fatto breccia nelle istituzioni che si occupano di minori. La riforma Cartabia (d.lgs 150/22) amplia l’applicabilità di un istituto di fatto riparativo (messa alla prova) già esistente nell’ambito del sistema penale minorile. Per diffondere la cultura riparativa nelle scuole, dal 2020, Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, porta avanti in tutta Italia il progetto «Riparare: conflitti e mediazione a scuola», che l’anno scorso ha coinvolto 13 scuole in tutta Italia, approdando nel maggio di quest’anno alla formulazione di un manifesto delle scuole riparative.
Luci e ombre di un cammino pieno di ostacoli, ma anche di prospettive. «Quando il percorso riparativo finisce e il ragazzo o la ragazza lo presenta alla classe, noi adulti stessi rimaniamo senza parole». Claudia conserva un foglio con le frasi dei compagni di Aldo pronunciate durante la «restituzione», un ritorno nel mondo del reo ma anche della vittima, dopo aver sofferto e condiviso. Eccone alcune: «Questo percorso implica un lavoro su se stessi e crea legami: da soli non si può fare»; «la mera punizione mette in secondo piano l’errore, non lavora su di lui»; «ho potuto conoscere Aldo anche nel fatto che ci vuole bene, e vuole bene a se stesso, perché ci tiene a rimediare»; «sono contenta che Aldo si sia sentito bene durante il percorso, non credo di averlo mai visto così soddisfatto».
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