Il lavoro che vogliamo

Dal 26 al 29 ottobre a Cagliari si tiene la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani sul tema: «Il lavoro che vogliamo: "Libero, creativo, partecipativo e solidale"». Per riscoprire la visione cristiana del lavoro.

Aveva 39 anni Andrea Comand e una malattia che non gli ha dato scampo. Aveva una famiglia e anche un’attività imprenditoriale che ha portato avanti fino a luglio, quando se n’è andato. Ma, prima di morire, ha voluto far germogliare da quella situazione di dolore nuova vita e così ha scelto, in accordo con la famiglia, di lasciare le sue quote dell’attività a cinque dipendenti, i quali, dopo un breve periodo, hanno riaperto l’azienda e hanno voluto dirgli il loro grazie con una lettera pubblica: «Come sempre ci ha spiazzati con i suoi gesti istintivi, diretti, concreti impegnativi ma fatti sempre con il cuore – hanno scritto –. Ci ha insegnato a camminare da soli, perché non era una persona gelosa del suo sapere ma orgogliosa di far crescere le persone che aveva scelto alle sue dipendenze». Quella di Andrea è una vicenda straordinaria perché è generativa. È una di quelle storie di «quotidiana risurrezione», che possono accadere anche in una fabbrica, se gli attori coinvolti decidono che pure quello del lavoro può essere luogo di «santità».

Che il lavoro sia un ambiente deputato per eccellenza alla crescita di relazioni buone e alla maturazione umana delle persone ce lo ha ricordato anche papa Francesco quando, nello scorso maggio all’Ilva di Genova, si è incontrato con un gruppo di lavoratori e imprenditori. A questi ultimi il Papa ha ricordato come «non c’è buona economia senza buoni imprenditori», senza la loro capacità di creare, lavoro e prodotti. «Il vero imprenditore – ha sottolineato il Pontefice – (…) condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, di risolvere insieme problemi, di creare qualcosa insieme». Perché il mondo dell’occupazione, ha proseguito papa Bergoglio, «è il mondo del popolo di Dio (...). Molti degli incontri tra Dio e gli uomini sono avvenuti mentre le persone lavoravano (…). Lavorando noi diventiamo più persona, la nostra umanità fiorisce, i giovani diventano adulti soltanto lavorando. La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. (…) Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. (…) Dev’essere chiaro che (...) senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti» (il discorso integrale si può leggere qui: w2.vatican.va).

È indubbio che questo di Genova è stato forse il discorso emblema di papa Francesco sul tema che stiamo affrontando. Ma non è stato di certo l’unico. Di lavoro ha parlato anche, per esempio, nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (E.G.) ed è proprio a un versetto di tale documento che si sono ispirati gli organizzatori della 48ª Settimana sociale che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre, sul tema: «Il lavoro che vogliamo: “libero, creativo, partecipativo, solidale”» (www.settimanesociali.it).

Scrive infatti il Papa nel documento: «Non parliamo solamente di assicurare a tutti il cibo, o un “decoroso sostentamento”, ma che possano avere “prosperità nei suoi molteplici aspetti”. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita» (E.G. 192).

D’altro canto, anche il santo assisiate, di cui l’attuale Pontefice ha scelto di portare il nome, ha raccomandato ai suoi frati di non chiedere l’elemosina, ma di «guadagnarsi» il pane lavorando. E così pure la tradizione e il pensiero francescano esprimono, in modo chiaro, una visione del lavoro quale partecipazione umana alla creazione ed espressione di interesse per il bene comune. «Mentre la celebre e storica frase di san Benedetto ora et labora mette nel circuito del sistema economico europeo due precise azioni, la preghiera e il lavoro, nella stabilitas loci, cioè nel Monastero – ci spiega Oreste Bazzichi, docente di Filosofia sociale ed etico-economica alla Pontificia facoltà teologica San Bonaventura –, san Francesco, otto secoli più tardi, uscendo dai chiostri e euntes per mundum (cioè andando in mezzo alla gente), compie una rivoluzione: prega lavorando e lavora pregando. La concezione teologico-sociale francescana del lavoro è pertanto contenuta nell’espressione grazia del lavoro (Regola bollata del 1223, cap. V), che ha tre finalità: come “grazia”, cioè dono d’amore che si offre ai fratelli per il ben-essere sociale per tutti; come partecipazione all’atto creativo di Dio (concreatori); come perfezione, cioè svolto con responsabilità, dedizione, “fedeltà e devozione”. In questa prospettiva, la “grazia del lavoro” umanizza e perfeziona se stessi, umanizza il lavoro e umanizza gli altri, aprendo il lavoro alla collaborazione, alla relazione e alla fraternità».

Si comprende bene, quindi, come la Chiesa non solo possa, ma debba occuparsi di lavoro, vigilando (e nel caso denunciando) sulle situazioni critiche che in tale ambito (o a causa della sua mancanza) si creano e che sono contrarie al rispetto della dignità umana.


La radice biblica del lavoro

Papa Francesco, nell’incontro con i lavoratori dell’Ilva, questo aspetto l’ha ben chiarito: «Qualcuno può dire: “Ma questo prete, che cosa viene a dirci? Vada in parrocchia!”. No, il mondo del lavoro è il mondo del popolo di Dio». E ancora: «Il mondo del lavoro è una priorità umana. E pertanto, è una priorità cristiana, una priorità nostra, e anche una priorità del Papa. Perché viene da quel primo comando che Dio ha dato ad Adamo: “Va’, fa’ crescere la terra, lavora la terra, dominala”. (...) Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa». Come suggerisce Francesco, il significato profondo del lavoro secondo l’interpretazione biblica va cercato già nelle prime frasi del testo sacro, dove incontriamo un Dio lavoratore che crea l’universo, un Dio vasaio che plasma l’uomo, un Dio che il settimo giorno «aveva cessato da ogni lavoro» (Gn 2,3), «inventando» la festa. «La dimensione paterna di Dio si manifesta nel suo lavorare per l’uomo» commenta Luciano Manicardi, priore di Bose, in Il lavoro: aspetti biblici (Qiqajon 2007). Ma se il Creatore ha fatto la sua parte, basta andare appena pochi versetti oltre (Gn 2,15) per trovare il nostro mandato: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». Un passaggio decisivo che commentiamo con Silvano Petrosino, docente di semiotica alla Cattolica di Milano. «Il fatto è che la creazione è perfetta, ma non compiuta. Non siamo semplici spettatori: Dio attende la risposta, cioè il lavoro, dell’uomo. Ciascuno di noi, col suo carisma e la sua irripetibile specificità, porta a compimento la creazione». Noi più di frequente colleghiamo invece il lavoro alla cacciata dell’uomo dal giardino, al sudore e al dolore necessari per vivere. «Ma il lavoro non è l’effetto del peccato – spiega il filosofo –. L’effetto del peccato è la perdita di senso del lavoro, che diventa solo fatica e delusione. Altra conseguenza: abbiamo sovrapposto e confuso il “lavoro” con la “professione”, quando invece quest’ultima è solo un aspetto, caratterizzato dalla retribuzione, mentre il lavoro è ben altro. È quel “coltivare e custodire” che si concretizza in ogni fase della giornata. Anche pulire la casa è un lavoro. Leggere un bel romanzo. Cucinare per la propria famiglia. Non richiede forse concentrazione, amore, impegno? Sono moltissimi gli atti grazie ai quali l’uomo contribuisce al compimento della creazione». L’aver fatto coincidere lavoro e professione non è un processo senza effetti, sociali e personali. Petrosino ne individua diversi: «La professione è diventata ideologia. Ecco che il primato professionale è esaltato come unico traguardo di una vita degna di questo nome. E chi non lo raggiunge, è un frustrato. Si vorrebbe essere tutti dei Maradona, ma di fuoriclasse ne nasce uno al secolo: gli altri sono tutti dei falliti? Dobbiamo scardinare questa logica: la riuscita o meno di una vita non coincide assolutamente con il successo professionale. L’uomo non è un fallito perché fa il netturbino e guadagna 800 euro al mese: un uomo è un fallito quando non si comporta da uomo, facesse anche il primario. Un’ultima conseguenza è la separazione netta dei tempi: lavoro 10-12 ore e poi ho diritto a godermi il cosiddetto “tempo libero”, moralmente neutro, svuotato da qualsiasi impegno. È fuorviante: ci è dato un unico tempo, nel quale abbiamo la responsabilità di “coltivare e custodire” la nostra umanità». L’antidoto, secondo Petrosino, sta nell’educazione da offrire ai giovani, «insegnando loro ad apprezzare il gusto del lavoro, ad allargare lo sguardo, senza infilarsi precocemente nel tunnel dell’iperspecializzazione, perché il mercato è in movimento tale che la mia “specialità” verrà presto sorpassata. Meglio puntare su basi solide che permettano di ricollocarsi al mutare delle condizioni».
 

Le sfide che ci attendono

Chiarito il significato profondo del lavoro, la vera sfida rimane il futuro. C’è in atto una grande rivoluzione tecnologica, eppure pochi sono consapevoli delle enormi e ancora ignote conseguenze che essa avrà sul mondo del lavoro. Dal 2013 si è iniziato a parlare in Germania di «Industria 4.0», cioè della quarta rivoluzione industriale, dopo quelle innestate dalla macchina a vapore (1794), dall’elettricità, dal motore a scoppio e dall’uso del petrolio (1870) e, infine, dall’informatica (1970). L’Industra 4.0 è il frutto dello sviluppo esponenziale delle tecnologie a nostra disposizione: dal digitale alle biotecnologie, dall’intelligenza artificiale alle nanotecnologie. Oggi abbiamo  mezzi per mettere in comunicazione le macchine tra di loro, sensori che controllano in tempo reale ogni fase della produzione, capacità di analizzare e mettere in relazione una quantità infinita di dati, potenzialità che ci permettono, per esempio, di adattare la produzione alla domanda, limitare errori e sprechi e di personalizzare i prodotti.

Un esempio? Oggi possiamo ordinare una borsa o un paio di scarpe di marca scegliendo forma, colore, accessori e riceverle a casa qualche giorno dopo. Ciò succede perché il nostro ordine d’acquisto scatena una serie di processi, in buona parte robotizzati. Ciò ha in sé grandi potenzialità ma anche grandi rischi. Il più immediato è la disoccupazione dei lavoratori obsoleti. Già oggi ci sono i primi segni: l’impiegato di banca sostituito dall’home banking, l’agenzia di viaggio rimpiazzata dai siti dedicati, i negozi messi a dura prova dagli acquisti on line.

La tecnica non è in sé «il male». Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate lo precisa chiaramente: «La tecnica è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello Spirito sulla materia». E allora qual è il problema? Papa Francesco l’ha detto in più occasioni: il male è il lavoro che non è a servizio dell’umanità. Non a caso, Francesco Occhetta, gesui­ta, ha scritto di recente un articolo su «Civiltà Cattolica», invertendo i termini con cui di solito si parla di questa materia. Il titolo è «Il lavoro 4.0», invece del consueto «Industria 4.0». La prospettiva è capovolta, a significare che se una rivoluzione del lavoro è in atto, deve svilupparsi anche una nuova antropologia del lavoro.

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di questa era? «Il modello è lo Smart Working, che libera il lavoratore dalla necessità di recarsi in azienda e timbrare il cartellino. Si lavorerà da casa, grazie alle piattaforme virtuali sempre connesse. Il lavoro non sarà più misurato sull’orario ma sul risultato. Sarà richiesta più autonomia, ma anche un rapporto di fiducia e corresponsabilità tra imprenditori e lavoratori». Occorrono conoscenze nuove, l’accesso alla formazione continua, ma anche leggi che salvaguardino i diritti. Tutti fattori che mancano o sono inadeguati. Occorre anche «la conoscenza giusta – continua Occhetta – per creare nuovi posti di lavoro». Ma i rischi non sono solo esterni: «L’equilibrio uomo macchina è molto delicato. L’uomo potrebbe imparare a interagire con la macchina al punto tale da alienarsi. Potrebbe per esempio isolarsi rispetto agli altri lavoratori o non essere più in grado di disconnettersi e di salvaguardare gli spazi per la vita privata e la famiglia. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario per il lavoratore avere un equilibrio umano e spirituale solido».

La sfida dell’industria 4.0 non è evitabile, perché dipende da fenomeni globali. Ed è una sfida per tutti: sindacati compresi. Non ci sono ricette, se non un orizzonte da non perdere di vista: «L’uomo – conclude Occhetta –  è chiamato a rimanere il soggetto della tecnologia». Solo così si creerà una nuova cultura capace di tutelare «in maniera efficace “il lavoro degno”, affermato nella Costituzione e difeso dal Magistero della Chiesa».

L’articolo completo è disponibile nel numero di ottobre 2017 della rivista e nella versione digitale.

Data di aggiornamento: 24 Ottobre 2017
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