Il silenzio «buono»
Sul silenzio è facile scivolare e dire parole banali. C’è troppo rumore si dice, ed è vero. Le città sono inferni di suoni senza grazia e non si può farci niente, si dice. Auto. Bus. Metro. Tutto fa rumore e però è inevitabile, si dice. Spostarsi bisogna. Ma anche i bar e i ristoranti, dove potremmo scegliere noi utenti, attraverso il gradimento o lo sgradimento manifestato, ci tempestano di musica a volume così alto da essere dolorosa. E questo è davvero un piccolo mistero della nostra sgangherata irriflessiva modernità. Ce ne lamentiamo. Diciamo che non riusciamo a parlare. Eppure. E c’è da dire che se per farci intendere dobbiamo alzare il volume della voce fino a urlare, viene meno la sfumatura, non possiamo trovare il tono giusto. Difficile dire qualcosa di dolce, oppure anche solo dubitativo, sfumato, se si è costretti ad urlare. E così il nostro parlare diventa una pericolosa deriva, uno scivolare verso la polemica assertiva, distruttiva. Anche quando siamo soli, a casa, ci circondiamo di rumori. Non la musica, ma rumori. Come il televisore acceso che non ascoltiamo, il telefono sul quale lasciamo scorrere video e reel che non guardiamo, ma sono chiassosi. «Mi fanno compagnia», rispondiamo a chi ci chiede.
La Bibbia conosce il silenzio. «Sta’ in silenzio davanti al Signore, e spera in lui» (Sal 37,7). Oppure, in altra traduzione: «Attendi il Signore in silenzio». Elia sente il Signore nel «Mormorio di vento leggero» (1Re 19,12). In altra traduzione bellissima: «Voce di silenzio sottile». Il silenzio è luogo, spazio che lascia entrare il Signore, certo. Ma è anche luogo del segreto accadere del pensiero. E soprattutto dell’ascolto e solo dall’ascolto nasce la relazione. Sapienza umana e cristiana si incontrano nel silenzio. «Ascolta Israele!» è la premessa del comandamento. Ascolta. Gesù pratica dei silenzi sconcertanti. Davanti agli scribi e ai farisei che gli portano la donna adultera. Chiedono non per sapere ma per accusare, prendere in trappola, lei e lui. E Gesù allarga il silenzio davanti a loro, per permettere lo spazio del pensiero. Poi c’è il silenzio di fronte al Sinedrio, che lo interroga con lo stesso scopo. E davanti a Erode e a Pilato. Sulla scorta dei testi profetici, lo si interpreta come il silenzio della vittima innocente. Ma forse questo silenzio contiene la possibilità per i farisei e i giudici di tornare indietro, di capire quello che stanno facendo. Ed è così. Anche l’esperienza quotidiana ce lo insegna. Se la parola è trattenuta, non viene precipitata, inviata, cliccata senza rimedio, allora a volte capiamo che stiamo tracimando, possiamo trattenere l’eccesso, l’improprio dire che scava fossati e genera guerre.
Certo che anche il silenzio può diventare strumento di potere. «Taci!» è spesso la parola del dominio. Del superiore, addirittura del genitore. Ci sono molti modi migliori per insegnare l’ascolto ai figli, ad esempio dire cose interessanti, ragionare con loro, ascoltarli davvero e così loro ascolteranno noi perché hanno imparato, per esposizione. Poi, il tacere dentro le istituzioni di potere, anche religioso, può essere violenta limitazione della libertà. Il silenzio che diventa omertà. Oppure impedisce il libero esercizio della critica, della fraterna condivisione. Le donne nella Chiesa hanno conosciuto l’abuso della virtù del silenzio. Strumento di prevaricazione, molto spesso anche sessista. Impropriamente ammantato di umiltà. E allora, come si fa? Ecco. Il silenzio buono è spazio di ascolto. È libertà. È luogo che lascia apparire il pensiero e la parola. Degli altri. Di Dio.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!