Il tempo delle soppressioni

Tra la metà del XVIII e la seconda metà del XIX secolo, più volte il convento del Santo e la stessa famiglia dei frati furono fatti oggetto di chiusure, appropriazioni, riduzioni forzate.
12 Settembre 2024 | di

Un periodo travagliato della storia della Basilica è quello delle soppressioni, collocato tra la metà del XVIII e la seconda metà del XIX secolo. Le radici di questi eventi si trovano anzitutto nel movimento illuministico, che puntava all’autonomia della ragione, all’esaltazione dell’individuo e dei suoi diritti. Uno degli sviluppi di questo movimento è l’idea di uguaglianza tra gli uomini, in contrasto con i privilegi presenti nella società (anche all’interno dei conventi). 

In nome di questi principi e della volontà di affermare l’autorità della giurisdizione laica su quella della Chiesa, era stata costituita una deputazione della Serenissima Repubblica di Venezia per compiere una ricerca storica sull’evoluzione degli ordini religiosi (1766): se all’inizio questi erano animati da semplicità evangelica, successivamente si erano progressivamente strutturati e ampliati, diventando depositari di beni e sviluppando al proprio interno una serie di disuguaglianze, sia culturali sia legate a privilegi personali. Per sanare questa situazione di «infelice decadenza» vennero presi dal Senato della Repubblica veneziana una serie di provvedimenti, che culminarono nel decreto del 1º giugno 1769, in base ai quali i conventi con meno di 12 frati venivano aboliti; inoltre, i frati non potevano effettuare nuove vestizioni (cioè accogliere nuovi membri) finché non si fosse raggiunto il numero di 280 frati in Provincia (ce n’erano 454), fissando l’età minima dei candidati a 21 anni. Vennero così in poco tempo chiusi 20 dei 40 conventi della Provincia del Santo (allora estesa tra Veneto, Friuli e parte della Lombardia). 

Altro aspetto fu la riorganizzazione della vita economica dei conventi, che veniva a dipendere dallo Stato, al fine di garantire un’uguaglianza tra i religiosi, cancellando eventuali privilegi. Imposta dall’esterno, se pure con notevoli limiti, si vedeva così attuata la riforma della vita fraterna tanto auspicata dal governo dei frati dopo il Concilio di Trento, ma mai realizzata. Un ministro provinciale dell’epoca, padre Gian Francesco Malisoni, in una lettera indirizzata ai frati (agosto 1769), richiamava proprio il ritorno a una più intensa vita spirituale e all’osservanza della disciplina religiosa, affinché venisse «scancellata quella nerra traccia che soffre la povera nostra Religione, communemente chiamata la Religione del libero arbitrio».

Con l’occupazione francese (1797) iniziò una nuova stagione delle soppressioni. In questo caso l’azione fu soprattutto quella di spogliare le chiese dei loro beni, anche la Basilica del Santo: «In un solo giorno la spogliarono del suo prezioso corredo, de’ vasi sacri [...]. La sacrilega rapina commosse il popolo, il quale a turbe, chiamava sbigottito e piangente la vendetta del Cielo. [...] Li religiosi esposero a pericolo la loro vita per resistere all’empietà dell’attentato, e le loro lacrime [...] e la loro costanza [...] ottennero di riscattarle» (manoscritto del 1802, Archivio Sartori). Molto importante in questo frangente fu padre Perissuti, guardiano del convento del Santo, che si adoperò per salvare le reliquie e anche la Biblioteca antoniana, insieme ai presidenti della Veneranda Arca e al popolo stesso: fu infatti pagato un riscatto di 62 mila lire. Oltre a ciò, i religiosi furono confinati in uno spazio ridotto, perché gran parte degli edifici annessi alla Basilica divennero caserma militare, e i chiostri trasformati in luogo di mercato, causando disturbo per i fedeli che pregavano in chiesa.

Ordini religiosi nel mirino

Nel periodo dell’impero napoleonico le cose peggiorarono: non solo avvennero ulteriori chiusure di conventi intorno al 1805-’06 (ne rimasero solo tre), ma il 25 aprile 1810 Napoleone comandò che tutte le congregazioni ecclesiastiche fossero chiuse. Anche la comunità del Santo venne soppressa, con grande preoccupazione per le celebrazioni dell’imminente festa di sant’Antonio. Per questo, furono mantenuti 15 ufficiatori in Basilica: frati che non potevano più vestire l’abito e, benché inseriti nel clero diocesano, portavano avanti in segreto la loro identità francescana, in attesa di tempi migliori. Tempi che giunsero solo a partire dal 1826, anche grazie al lavoro diplomatico di padre Francesco Peruzzo, in dialogo con i vescovi di Padova e il sovrano austriaco Francesco I (che dopo la disfatta di Napoleone comandava su quelle terre).

Un nuovo terremoto per i frati avvenne nel 1866, vale a dire quando il Veneto passò al Regno d’Italia: fu subito applicata la legge reale che scioglieva tutti gli ordini religiosi che non svolgevano un’attività utilmente riconosciuta e ne venivano confiscati i beni. Anche il convento del Santo ne fu progressivamente colpito: i frati furono esclusi dalla presenza nella Veneranda Arca, poi fu sciolta la famiglia religiosa (24 aprile 1867) e ordinato lo sgombero del convento, nel quale rimasero, come in precedenza, solo 15 ufficiatori. Il controllo della chiesa antoniana restò così in mano ai presidenti laici della Veneranda Arca, anche in virtù del Regolamento per l’ufficiatura della Basilica (in vigore fino al 1926) che prevedeva l’amministrazione economica e la nomina degli ufficiatori a carico dell’Arca. Pur essendo il clima molto teso, i frati continuarono però la loro vita, recuperando tratti essenziali della loro identità ideale e storica, mentre l’Arca sosteneva al contempo la salvaguardia e l’incremento del patrimonio artistico della Basilica. Un percorso che trovò poi il suo culmine nel settimo centenario della nascita di sant’Antonio, nel 1895.

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Data di aggiornamento: 12 Settembre 2024

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