La bellezza di Taranto
Taranto mi attira. La sua bellezza è «estrema». Quando mi trovo sull’isola della Città Vecchia non riesco a immaginare di poter vivere altrove. Ma io sono straniero e so che me ne andrò. Nei giorni di vento, sono più attento e mi chiedo da dove arrivi: mi hanno spiegato che se spira da Nord o da Nord-Ovest corro il rischio di respirare polveri e veleni. Se invece è scirocco, toccherà alla gente del quartiere di Statte avvelenarsi. Sono i wind-day, e allora scattano spesso ordinanze che vietano ai bambini i giochi all’aperto. A Taranto si era allenati al confinamento a finestre chiuse ben prima della pandemia.
Ma il mar piccolo, questa mattina d’estate, è azzurro intenso. Uomini, dalle mille rughe e gli occhi d’acqua, aprono con gesti del coltello, meccanici e perfetti, i gusci delle cozze e preparano «le vaschette». I ragazzetti del quartiere di Tamburi usano banchine galleggianti per volare verso il mare. Tuffi sempre più audaci, eccitati dal fotografo imprevisto. La ciminiera celeste dell’Ilva svetta oltre il confine delle case. La città più lacerata d’Italia mi appare davvero bellissima. Mezzo secolo fa ha venduto la sua anima all’acciaio. Qui, penso, vorrei davvero vivere. Per un po’, almeno per un po’.
Taranto è, da anni, su un bilico. La Fabbrica, sempre sull’orlo della chiusura, è un mostro che popola le notti: anche dal Borgo, quartiere del centro, se ne avverte il rombo perenne. Conosco uomini fuggiti dalla Fabbrica e conosco operai che mi dicono: «Purtroppo lavoro lì». Sono quasi tutti giovani. La loro pensione è ben lontana. Fuggiranno prima? Verso dove?
Nella chiesa di Tamburi, chiesa di San Leonardo Murialdi, prete torinese che, nell’800, si batté per i diritti dei lavoratori, un immenso Cristo benedice la Fabbrica. Lo osservano, devoti e intimoriti, un marinaio, un operaio con casco, un manager, un muratore. Un pescatore sbroglia le sue reti. L’unica donna dell’affresco è di ritorno dal mercato con la sporta dei pesci. Mosaico degli anni ‘60, nel 1968 Paolo VI celebrò la messa di Natale fra gli altoforni. Oggi, a Tamburi, lapidi affisse da cittadini uccisi dai tumori maledicono, da anni, «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».
Taranto è uno specchio dell’Italia: c’è la solitudine degli operai, la criminalità, la distruzione di un paesaggio, la povertà e la ricchezza, l’incertezza, la paura, l’illusione di un futuro diverso. C’è la bellezza. C’è una sorprendente vitalità artistica, sportiva, turistica. I ragazzi tornano a vivere qui e chi ne rimane lontano, ne resta legato per sempre.
A Taranto fra la fine di luglio e i primissimi giorni di agosto prenderà forma un grande «cantiere»: si intitola «PRIMA DELLA FUGA – laboratori artistici per una città stra/ordinaria». Il collettivo artistico Clessidra Teatro raduna attori, poeti, fotografi, scrittori, illustratori e li conduce per la città affidandosi a cittadini speciali: «guide-angeli».
Sarà un’esplorazione profonda, un camminare collettivo per angoli di vista diversi. Tutti si possono unire: cittadini, turisti in visita, curiosi, camminatori distratti e chi passa per caso fra i vicoli e le periferie dei quartieri Paolo VI e Salinella. É il tentativo di raccontare Taranto, è un teatro che vuol far nascere una spettacolo per l’estate 2021. Un tentativo destinato a durare un anno: è la speranza che un cambiamento possa esserci nel destino di Taranto.
I primi passi della costruzione di un racconto per la città si muoveranno fra il 30 luglio e il 2 agosto. Per parteciparvi: informazioni e iscrizioni nel sito www.clessidrateatro.it