Speranza, parola che salva
Che cosa possiamo fare? Ce lo stiamo chiedendo con struggimento in questi mesi di guerra. Ce lo chiediamo da esseri umani, uomini e donne di buona volontà, e da cristiani che camminano nella fede di un amore che li precede, sempre, anche quando rimangono indietro e lo perdono di vista. La verità è che siamo sorpresi, folgorati. Ma come, una guerra vera, combattuta con le armi, crudelissima tanto quanto quelle crudelissime che si studiano nei libri di storia, come se il tempo fosse trascorso del tutto senza frutto, così vicina alla nostra vita così civile. Psicologi e sociologi ci stanno spiegando perché le molte altre guerre sparse per la Terra non ci hanno sgomentato nella stessa misura. Ma ora c’è questa e non sappiamo che cosa fare. Addirittura parlarne è diventato quasi pericoloso e controproducente, perché si litiga, le nostre parole scavano fossati perché abbiamo un linguaggio quotidiano che si esprime con parole di guerra, pieno di trincee, fronti, bollettini, battaglie. Un linguaggio già bello pronto alla guerra, che ci mette di qua o di là, da un lato o dall’altro del confine.
Certo possiamo cercare di tirarci fuori dalla responsabilità e dire noi no, noi non c’entriamo. Noi sì, invece. Ogni volta che non siamo stati sentinelle, bellissima immagine biblica, e abbiamo guardato, senza vedere, il disastro che stava arrivando e poi abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo addormentati sul nostro benessere molle che era già guerra, guerra verso i poveri lasciati indietro e sfruttati. E se il sonno era inquieto – non si dorme bene sapendo che gran parte del mondo non mangia –, allora abbiamo allungato la mano sulle gocce per il sonno, o sul telecomando, qualche volta basta quello. Noi sì, anche quando abbiamo votato chi gridava di più, prevaricava, promettendo di difenderci contro Lazzaro che chiede briciole e noi ci siamo aggiunti al coro e abbiamo gridato «libera Barabba», il brigante e l’assassino. Viva i condoni e gli indulti per marpioni, ladri e profittatori così possiamo continuare a sentirci buoni. Ci vuol poco, se il metro sono loro.
E adesso? Adesso guardiamo al Vangelo. I discepoli hanno conosciuto lo sgomento per la fine delle loro speranze. E sono così compresi nella loro delusione e nella loro paura che non riconoscono più il loro bene. Quando Gesù risorge e si mostra a Maria di Magdala, non credono. Ai discepoli di Emmaus, non credono. Eppure lo hanno amato e seguito. Anche noi lo amiamo e seguiamo. Eppure non abbiamo capito e ora siamo fermi, incatenati alla nostra delusione. E allora che cosa facciamo? Ce lo dice lui: «Andate in tutto il mondo» (Mc 16,15). Parlate, annunciate. Il paradiso è stato perduto qui in Terra, ma ogni giorno possiamo ricostruirne un pezzetto, anticipo della pienezza, ripartendo dalla pietra del sepolcro del sabato o dalla polvere delle fosse comuni.
È il «grande male», di Davide Maria Turoldo, davanti al quale servono «non intelletto o dottrina, / non le logiche pur severe, carte / ingiallite avanti sera», ma «lume, splendore acceso / per lo Sposo che tarda». C’è l’invito di Gesù, a non cedere alla paura, un passo dopo l’altro andare nelle case, nelle scuole, negli uffici, fabbriche, chiese, oratori e, come i discepoli scoraggiati del Vangelo, raccontare con le parole del Vangelo e con le opere della carità, che la morte non è l’ultima parola nemmeno oggi. «A ogni creatura», va proclamata la speranza, anche se con il cuore pesante. Dal chiuso della nostra paura, grande male, la parola di Gesù ci permette di alzare lo sguardo fino all’estremo orizzonte. Ogni essere vivente ci aspetta. C’è il mondo là fuori, ha bisogno della parola che permette di sperare e vivere ancora.
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