Vaccini anti-cancro, facciamo chiarezza
Le parole contano, e a volte rischiano di portarci fuori strada. È il caso della parola «vaccino», la cui etimologia rimanda al virus del vaiolo bovino («vaccino», appunto), messo a punto da Edward Jenner a fine Settecento. La sua scoperta permise di eradicare dalla faccia della terra il vaiolo, uno dei peggiori flagelli per l’umanità, ma anche di dare il via a un lungo filone di ricerche che solo negli ultimi 50 anni si stima abbiano salvato 154 milioni di vite dalle conseguenze di 14 malattie infettive, dal morbillo alla meningite. Il meccanismo è noto: presentare al sistema immunitario un agente infettivo (o una sua componente) in una forma innocua, per prepararlo a rispondere in futuro con maggiore prontezza ed efficacia a un eventuale incontro con lo stesso microrganismo, ma nella versione più minacciosa, presente in natura. Tra le infezioni che si possono prevenire ci sono anche quelle da papillomavirus e da virus dell’epatite B, che in una piccola percentuale di casi possono persistere per anni nei tessuti. Queste infezioni croniche possono talvolta portare alla formazione di tumori. Per questo si dice che i vaccini anti epatite B e anti papillomavirus sono «vaccini anti-cancro», perché, proteggendo da un agente infettivo potenzialmente cancerogeno, indirettamente prevengono anche la formazione del tumore.
Antigeni e immunoterapia
Lo stesso termine di «vaccino anti-cancro» è tuttavia spesso utilizzato anche per prodotti completamente diversi, sebbene basati sullo stesso principio: risvegliare le difese dell’organismo portando la loro attenzione su una potenziale minaccia, che in questo caso non è rappresentato da un germe, ma dal cancro stesso. Come per i vaccini tradizionali, anche in questo caso si individuano sulle cellule tumorali molecole specifiche, dette «antigeni», che le distinguono da quelle sane e che possono rappresentare un bersaglio efficace per il sistema immunitario, cui vengono presentate perché esso reagisca con una risposta mirata. La differenza fondamentale, però, è che tutti i «vaccini anti-cancro» di questo tipo attualmente esistenti, e la stragrande maggioranza di quelli in fase di sperimentazione e di cui leggiamo sui giornali, non servono a prevenire la malattia, come tipicamente fanno i vaccini contro le malattie infettive, ma a trattare singoli tumori difficili da curare con i farmaci. Si parla infatti, in questi casi, di «vaccini terapeutici». In pratica, non si tratta di altro che di uno dei tanti strumenti nell’armamentario di una più ampia branca dell’oncologia moderna detta «immunoterapia»
Ma non si potrebbe usare lo stesso sistema per allenare in anticipo i nostri globuli bianchi a riconoscere le cellule tumorali e a bloccarle sul nascere, evitando del tutto la formazione del cancro? La prospettiva è affascinante, e ci si sta lavorando, anche se non è facile. Esistono, infatti, tanti tumori quanti sono i pazienti, e la stessa malattia nello stesso individuo può evolvere e cambiare caratteristiche nel tempo, per cui, come non esiste una sola cura per il cancro, così è difficile trovare un unico bersaglio contro cui addestrare le difese. La scienza, tuttavia, non si arrende e alcuni ricercatori stanno lavorando anche su questo.
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