Il tempo di Dio
Velocità. Correre, correre e correre, senza fermarsi. Che cosa ci porta a vivere in questo modo? Forse sono le tante cose di cui la nostra vita è piena: il lavoro, gli impegni, le relazioni. Le nuove tecnologie hanno velocizzato molti processi e noi dobbiamo «starci dietro». Quante volte la nostra vita sembra una continua corsa contro il tempo! Forse è proprio il pensiero del tempo che scorre inesorabile a creare in noi tutta questa ansia: la consapevolezza che il mio tempo è limitato, che ha una fine, la mia morte.
Nell’icona orientale della discesa agli inferi si rappresenta Gesù, al centro del quadro, con una voragine nera ai suoi piedi: è la bocca degli inferi, l’entrata del buio regno della morte. È l’orizzonte del nostro tempo cronologico: progressivamente la nostra vita si consuma, finché il sipario si chiude. Questa prospettiva ci porta a cogliere la vita come una lotta contro il tempo, nella quale abbiamo i giorni contati e nulla rimane quando varchiamo la soglia.
Come vivere allora? Una possibile soluzione è riassunta nel motto carpe diem: poiché non c’è speranza nel domani e il tempo fugge, «cogli l’attimo», datti da fare qui e ora, goditi pienamente la vita, almeno in questo momento sarai felice. «Del doman non v’è certezza», scriveva Lorenzo il Magnifico. È questa una strategia in cui si minimizza il futuro, cercando di vivere al massimo il presente: cerco ciò che mi soddisfa, che mi appaga, al centro c’è il mio bisogno, la mia sete, la mia soddisfazione. Ma questa felicità presente viene spesso frustrata: la persona che ho a fianco non è più quella di una volta, l’emozione vissuta non è la stessa o, peggio ancora, il presente diventa invivibile perché il mondo mi cade addosso, come ci mostrano la tragedia della guerra o le catastrofi naturali (tremendo il disastro del terremoto tra Turchia e Siria).
Ma, se anche il presente mi tradisce, dove posso rifugiarmi? Nel ricordo del passato che non torna? O nella continua attesa di un futuro migliore, in cui potrò essere felice? Quante volte ci capita di intristirci perché le cose non vanno e di aggrapparci a delle consolazioni piccole, a un diversivo che mi dia un po’ di sollievo, che alleggerisca il mio tempo. Atteggiamento insolito? Non mi pare, ne abbiamo molti esempi nel nostro quotidiano, e senza scomodare i «grandi» della tv o dei social, basta guardare a noi stessi.
Anche Gesù finisce il suo tempo cronologico: la morte raggiunge pure lui. Ma c’è una novità: non può tenerlo prigioniero. Il sepolcro, memoria del tempo della vita e anche della sua fine, è vuoto. La Risurrezione è segno dell’irruzione di un tempo altro, diverso, migliore: il tempo di Dio, il tempo della grazia (quello che si chiama kairos). E Gesù è il Signore di questo tempo e vuol farci entrare in esso. Ci tende la mano, come ad Adamo ed Eva nell’icona, per tirarci fuori dal tempo che ci divora e ci fa ripiegare su noi stessi. Sì, perché è questa la grande differenza: nel tempo che scorre siamo abbandonati a noi stessi, mentre il tempo di Dio è quello in cui Lui continuamente si prende cura di noi e desidera che ci apriamo alla relazione con Lui.
E se lo facciamo, ecco che la nostra esistenza acquista senso: non è più orientata verso il vuoto della morte, ma è illuminata dalla luce della Pasqua, la luce della Risurrezione. Essa apre non solo alla speranza di un futuro con Dio, affermando che la morte non è l’ultima parola sulla nostra esistenza, ma ci dà la possibilità dell’incontro con il Signore oggi: già nel presente il nostro tempo può essere rinnovato, liberato dell’ansia del controllo. A tutti, quindi, un sincero augurio di buona Pasqua, perché possiamo entrare nel tempo nuovo della grazia, che è pieno nella misura in cui è condiviso con gli altri.
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