La ricerca parla italiano
Oggi più che mai, un asset strategico per lo sviluppo dell’Italia è costituito dai nostri scienziati all’estero. Sembra un paradosso, eppure non lo è. Il nostro Paese spende milioni di euro in formazione, dalla scuola primaria fino all’università. Poi i giovani espatriano perché in Italia non trovano fondi adeguati per le loro ricerche, né stipendi ragionevoli, né possibilità certe di carriera, né riconoscimento delle loro competenze. Così il loro ingegno va ad arricchire altri Paesi del mondo dai quali, poi, finiamo per comprare a caro prezzo tecnologia, e non solo, prodotta da quegli stessi nostri talenti. Tocca alla politica trasformare questo asset in uno straordinario volano di sviluppo, com’è emerso anche alla recente XVII Conferenza dei ricercatori italiani nel mondo tenutasi presso la Temple University di Philadelphia, negli Stati Uniti, grazie alla collaborazione del professor Antonio Giordano, della Sbarro Health Research Organization (www.shro.org), della Texas Scientific Italian Community e del suo presidente, il professor Andrea Giuffrida.
«Con il professor Giordano abbiamo condiviso, per vent’anni, idee, iniziative come questa Conferenza, accordi bilaterali tra istituzioni italiane e americane», rammenta Vincenzo Arcobelli, fondatore e presidente della Conferenza. «La continuità di questo appuntamento rappresenta un modo concreto di ampliare il network dei ricercatori italiani nel mondo e di far capire alle istituzioni pubbliche e private, e alla gente comune, quale risorsa essi costituiscano per l’Italia». L’attenzione all’incontro degli scienziati italiani è stata confermata da numerosi messaggi di saluto giunti dalle istituzioni italiane. «Questo sostegno conferma il prestigio che la Conferenza ha conquistato negli anni, dando vita a una piattaforma di collaborazioni e di scambi scientifici tra ricercatori, e come una vera opportunità per riconoscere ed evidenziare l’enorme impatto che gli scienziati italiani hanno sulla ricerca a livello nazionale e internazionale», osserva Giuffrida.
In tema di innovazione e sviluppo, Fabio De Furia, presidente di MSIC, sottolinea come la Miami Scientific Italian Community sia nata «come un centro di trasferimento tecnologico italiano negli Stati Uniti per facilitare l’incontro delle piccole e medie imprese con le nuove tecnologie. Sostenere programmi di sviluppo consente alle imprese di raggiungere o mantenere una posizione competitiva sui mercati nazionali e internazionali. L’Italia, infatti, non è solo “cibo, moda e arredamento”, dal momento che nelle nostre università e nei centri di ricerca esistono tecnologie che possono competere con chiunque negli Stati Uniti e nel mondo».
Antonio Giordano
Philadelphia, Stati Uniti
Antonio Giordano è professore ordinario nel settore scientifico-disciplinare di Anatomia e Istologia patologica del Dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Università degli Studi di Siena, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine alla Temple University di Philadelphia, e direttore del Centro di Biotecnologie del College of Science and Technology presso la stessa università. Nato a Napoli nel 1962, si è laureato in Medicina nella sua città per poi conseguire la specializzazione in Anatomia e Istologia patologica all’Università di Trieste. Successivamente ha ottenuto un dottorato di ricerca negli Stati Uniti dove ha lavorato al Cold Spring Harbor Laboratory, diretto dal premio Nobel James Watson. Giordano ha un’esperienza riconosciuta a livello internazionale nel campo della genetica del cancro, della regolazione del ciclo cellulare e negli studi di terapia genica. «La passione per la ricerca l’ho ereditata da mio padre, il professor Giovan Giacomo Giordano, che scoprì i gravissimi danni derivati dall’esposizione alle fibre di amianto. Da lì è nata la mia voglia di studiare per dare una speranza a migliaia di pazienti oncologici, per provare a curarli o almeno migliorare la qualità della loro vita».
All’inizio della sua carriera, Giordano ha scoperto la p60/Ciclina A (una proteina che regola la progressione del ciclo cellulare, processo fondamentale delle cellule umane), e ha clonato il gene oncosoppressore RBL2/p130 e, più tardi, ha identificato i geni CDK9 e CDK10, contribuendo al disegno di diversi farmaci. «Oggi ci troviamo dinanzi a un miglioramento del progresso scientifico che ci offre la possibilità di studiare migliaia di geni in contemporanea, e di monitorarne l’espressione e le relative conseguenze. Le tecnologie avanzate sono fondamentali nell’era della terapia personalizzata e della medicina di precisione. Sappiamo che per aumentare il successo di una terapia è necessario diagnosticare quanto più precocemente possibile la neoplasia, individuare le caratteristiche peculiari del tumore che lo rendono responsivo o meno a determinati trattamenti».
Il principale obiettivo di Giordano è far convergere tra loro tutte le sue ricerche. «Studio le alterazioni molecolari al fine di identificare nuove strategie terapeutiche mirate per il mesotelioma e il tumore del polmone, la cui eziologia è correlata all’esposizione a inquinanti ambientali. Contestualmente mi interesso da anni della “Terra dei Fuochi” in Campania, incoraggiando studi di biomonitoraggio per incentivare l’attività di bonifica, e provare a ridurre l’incidenza di svariate patologie. Inoltre ho valutato le potenzialità di alcuni alimenti che possono apportare benefici in termini di prevenzione e di miglior efficacia dei trattamenti chemioterapici. Mi sto dedicando anche allo studio del nuovo virus Sars-Cov 2». Per quanto concerne la questione della ricerca, Giordano ritiene che «ciò che manca in Italia è una procedura burocratica snella, veloce ed efficace che garantisca la stabilità. Credo che l’Italia si giovi di menti brillanti. I giovani ricercatori italiani sono una risorsa preziosa. All’estero trovano solo le condizioni migliori per esprimere le loro potenzialità».
Alessia Zamborlini
Parigi, Francia
Sua madre era infermiera, suo padre impiegato. «Mandare all’università i figli è stato il risultato della loro aspirazione a una progressione sociale, e per assicurarci un buon posto di lavoro». Si esprime così, in modo schietto, la professoressa Alessia Zamborlini, originaria di Pordenone. Dopo la laurea in Chimica farmaceutica all’Università di Padova, ha proseguito la sua formazione con un dottorato in Virologia all’Istituto di Istologia, microbiologia e biotecnologie mediche dello stesso ateneo. «All’epoca ho avuto l’opportunità di frequentare il Dana Farber Cancer Institute di Boston, parte della Harvard Medical School, per lavorare nel laboratorio di Heinrich Gottlinger, ricercatore molto rinomato per i suoi studi sul virus Hiv, responsabile della diffusione dell’Aids».
Successivamente, in occasione del post-dottorato, Zamborlini si è fermata in Francia. Nel 2019 è diventata professore ordinario di Virologia all’Università di Parigi-Saclay. «Lo studio delle interazioni tra il virus Hiv e la cellula ospite è il filo conduttore della mia attività di ricerca. Come tutti i virus, quello dell’Hiv è un parassita intracellulare che sfrutta i processi cellulari per moltiplicarsi e propagare l’infezione ad altre cellule-organismi ospiti. La comprensione delle interazioni che si stabiliscono tra il virus e la cellula ospite durante l’infezione è molto importante per identificare dei target potenziali per trattamenti antivirali». Non solo. «Lo studio di virus apparentati con l’Hiv ha permesso di fare luce sui meccanismi della genesi dei tumori. I miei studi più recenti si focalizzano sulla comprensione dei processi di resistenza intrinseca all’infezione per mettere a punto strategie di rinforzo della risposta immunitaria e prevenire la disseminazione del virus o favorire la sua eradicazione».
Per Zamborlini i risultati si ottengono lavorando sodo, credendo in se stessi, creando e coltivando un proprio network di relazioni professionali. Un consiglio che vale anche per i giovani. Ma servono pure gli investimenti. «Lo Stato dovrebbe sostenere la ricerca pubblica, aumentando i finanziamenti duraturi e riducendo la precarietà di chi vi è coinvolto. La ricerca scientifica è un processo lungo che non può che essere frenato quando si è continuamente impegnati a cercare fondi oppure a svolgere compiti amministrativi. Poi è fondamentale maturare esperienze lavorative diverse per acquisire una visione ampia ed essere coscienti che, di fronte a una situazione o a un problema, possono esistere soluzioni differenti. Inoltre bisognerebbe evitare il più possibile gli ambienti di lavoro nei quali si è assunti da giovani, e si resta fino alla pensione, in particolare nell’ambito pubblico. Una mobilità ridotta limita la circolazione di nuove idee, e favorisce il pensiero unico e il nepotismo».
Antonio Colaprico
Miami, Stati Uniti
La Puglia e l’Italia ce li ha nel cuore, con la storia, le tradizioni, i valori, i sapori, anche se vive e lavora a Miami, in Florida, dal luglio del 2017 come Associate Scientist. Antonio Colaprico è nato a Foggia e ci ha vissuto nei primi 19 anni della sua vita. Poi ha deciso di trasferirsi a Benevento per frequentare Ingegneria delle telecomunicazioni all’Università del Sannio dove ha conseguito la laurea triennale prima della specialistica e del dottorato di ricerca in Bioinformatica. Durante il periodo degli studi ha iniziato a dedicarsi alla creazione di software. All’Università ha conosciuto Isabella che poi è diventata sua moglie. Dopo un periodo di precariato nella ricerca, si è aperta una possibilità a Bruxelles per fare un post-doc in «Machine Learning» all’Istituto interuniversitario di Bioinformatica. In Belgio si è confrontato con il suo supervisore, Gianluca Bontempi. E gli si è spalancato un mondo di opportunità. Così Colaprico è approdato all’Università di Miami per specializzarsi nell’ambito della Bioinformatica ovvero la biologia e l’informatica applicate allo studio della genetica umana.
«Come ingegnere non sviluppo solo software – ci spiega – ma anche metodologie che fanno risparmiare tempo a un medico per raggiungere un risultato, per migliorare la qualità della vita delle persone. In particolare, ho sviluppato i software TCGABiolinks e Moonlight. Questa possibilità l’ho avuta lavorando a Miami con il finanziamento del governo americano. E li ho presentati con grandi risultati a Bethesda, a Washington, alla sede dei National Institutes of Health. Il governo ha raccolto per dieci anni i dati sulle malattie oncologiche di un campione di diecimila persone sequenziandone il patrimonio genetico. Ora il mio software aiuta a organizzare, analizzare e visualizzare tutti quei dati». Colaprico ha paura dell’intelligenza artificiale? «Credo che aiuterà il mio lavoro, ma temo che sarà anche un competitor. Concorrerà ad automatizzare alcune funzioni, facendo risparmiare tempo. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale senziente, che agisce come ChatGPT, penso sia qualcosa che neanche conosciamo ancora bene».
Sulla questione del ritorno in Italia degli scienziati italiani all’estero, «mi sono confrontato spesso con le autorità diplomatiche e con le associazioni degli italiani nel mondo. Anche in Italia bisognerebbe abbracciare culture e tradizioni diverse come a Miami dove è facile trovare uno che viene dall’Italia, dalla Cina o dall’India, oppure statunitensi naturalizzati. È il mercato americano ad avvantaggiarsi del lavoro degli scienziati stranieri attirati dalle migliori condizioni di lavoro e dagli investimenti nella ricerca e nello sviluppo. Inoltre, dovremmo lavorare su progetti brevi che colleghino università italiane e straniere con scambi di ricercatori».
Emanuele Giorgi
Monterrey, Messico
Direttore di Ricerca alla Scuola di Architettura, Arte e Design del Tecnológico di Monterrey, una delle più importanti università del Messico, Emanuele Giorgi è nato a Pavia 36 anni fa, e si è laureato in Ingegneria Edile-Architettura nella sua città con un Italian chinese curriculum, un programma congiunto dell’Università di Pavia e della Tongji University di Shanghai, in Cina. Vista la situazione in Italia, dopo il dottorato si è trasferito al Tecnológico di Monterrey, all’inizio come visiting professor. In pochi anni ha bruciato le tappe della carriera. «Ora coordino, a livello nazionale, l’attività di ricerca nella mia Scuola». Giorgi sta curando il progetto «Design for Vulnerables – Technology Challenge». L’obiettivo è quello di capire come deve evolvere il disegno architettonico e urbano, e quello dei servizi nei prossimi anni per le comunità vulnerabili che sopportano il maggior impatto delle emergenze climatiche, sociali ed economiche. «Sono le fasce della popolazione che vivono nelle aree urbane e nelle periferie.
Un aspetto del progetto riguarda gli apparecchi tecnologici e il modo in cui possono essere facilmente utilizzabili dalle comunità più vulnerabili: da uno smartphone alla riscoperta di tecniche della cultura indigena in grado di avere un’applicabilità pratica alle necessità odierne. Per esempio, in una comunità in cui i livelli di fluoro e di arsenico nelle acque risultano molto alti, noi puntiamo a diffondere una tecnologia che consenta loro il riciclo dell’acqua per evitare di filtrarla, perché filtrare l’acqua provocherebbe un’ulteriore contaminazione del terreno. Oppure cerchiamo di introdurre bici elettriche nelle quali il motore non si trova sulla bici, ma sulla ruota. Basta avere una bici normale e cambiare solo la ruota. Questo consente di mettere a disposizione tecnologia a basso costo». Sette anni oltreoceano hanno rappresentato un cambiamento per Giorgi, anche se torna in Italia una volta all’anno.
«Del Messico mi impressiona il fatto che mi trovo molto bene, al di là del lavoro, per la possibilità di poter raggiungere obiettivi personali e professionali che in Italia sarebbero impensabili. Qui c’è una gran voglia di migliorare. Anche il sistema amministrativo e burocratico incentiva questa determinazione a mettersi in gioco. Invece in Italia tutto appare molto statico. La politica italiana dovrebbe valorizzare di più l’attività dei ricercatori italiani all’estero. Per esempio, creando una più forte relazione con le università italiane, rafforzando le collaborazioni tra università italiane e ricercatori italiani all’estero per poter far ottenere dei benefici al “sistema Italia”, favorendo i contatti tra i ricercatori e le imprese italiane». L’esperienza all’estero resta un passaggio fondamentale nella carriera di un giovane. «Quando valuto dei curricula per una posizione, il secondo aspetto che prendo in considerazione è l’esperienza internazionale, la connessione con altre università. È importante anche il posto dove si vuole andare a fare un’esperienza all’estero poiché per ogni ambito di studio c’è un Paese o un’università che rappresentano un’eccellenza e che influiscono sulla ricerca di ciò di cui ci si occupa».
Francesco Randi
Princeton, Stati Uniti
Nato a Bolzano 33 anni fa, Francesco Randi, dopo la laurea magistrale in Fisica dei materiali all’Università di Trieste, ha conseguito il dottorato in Fisica. Ora è ricercatore al Dipartimento di Fisica dell’Università di Princeton, nel New Jersey. «Ho lavorato in un laboratorio ad Elettra, il centro di ricerca di Fisica dei materiali sull’altopiano sopra Trieste, dove si trovano un sincrotrone e un laser a elettroni liberi, due acceleratori di particelle in cui gli elettroni vengono usati per generare luce con proprietà ideali per lo studio dei materiali», ci racconta Randi. «Dopo il dottorato, ho deciso di cambiare ambito, e applicare ciò che sapevo fare con i laser allo studio delle neuroscienze. Il tema di fondo del mio dottorato è stata la dinamica dei solidi fuori equilibrio. Atomi dello stesso elemento o di elementi diversi possono legarsi e formare solidi, ad esempio un metallo o un isolante. Quando i solidi sono formati da particolari combinazioni di elementi, in particolare ossigeno e un “metallo di transizione” (gli elementi che stanno nel mezzo della tavola periodica), cambiando qualche parametro esterno, come la temperatura o la pressione, lo stesso materiale può passare da essere un isolante a essere un metallo, un superconduttore o un materiale magnetico».
Dalla fisica alla biologia il passo è stato breve. «Negli ultimi anni ho mappato il modo in cui si propagano i segnali tra i neuroni del cervello del verme C. elegans producendo la prima mappa di questo genere. C. elegans è un organismo modello di cui conosciamo moltissime cose, e soprattutto il suo cervello è piccolo, formato da soli 302 neuroni. Questo ci permette di studiarne l’intero cervello e di testare modelli teorici in maniera esatta. Nei cervelli più grandi, come quelli dei topi, è ancora impossibile misurare l’attività di tutti i neuroni contemporaneamente. Negli ultimi anni la comunità scientifica ha imparato a misurare e controllare l’attività di enormi quantità di neuroni, spesso registrando nello stesso momento il comportamento dell’animale. Per esempio, comprendendo quali sono i neuroni che si attivano quando un animale cammina in avanti».
Inutile dire che la ricerca all’estero è molto più agevole. «Negli Stati Uniti c’è una quantità di finanziamenti, sia pubblici sia di fondazioni private. Ciò permette di lavorare a progetti che altrove sono più difficili da realizzare. In Italia i ricercatori sono molto bravi a cavarsela con poco, ma, purtroppo, c’è bisogno di maggiori finanziamenti per raggiungere un livello in cui si possano portare avanti grandi linee di ricerca. Inoltre, i finanziamenti nazionali per la ricerca dovrebbero arrivare in maniera più prevedibile. Le disfunzioni del sistema rendono molto difficile pianificare l’attività di ricerca e la carriera. In America sono assenti molti ostacoli burocratici. In Italia, anche solo ordinare dei materiali può diventare un percorso tortuoso. Per attrarre ricercatori dall’estero, italiani e non – conclude Randi –, l’Italia dovrebbe incentivare le aziende a fare ricerca sulle nuove tecnologie verso le quali, in alcuni casi, c’è molta diffidenza».
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