Cinquantanove campi profughi palestinesi
Le parole a volte ingannano. Persino le «definizioni» non aiutano a capire una realtà. I campi profughi di Palestina non sono tali. Sono città, sobborghi sovraffollati di centri urbani, quartieri malridotti, cresciuti nel disordine più assoluto, privi di spazi, privi di aria, di infrastrutture indispensabili alla vita. Non sono (più) tendopoli tirate su da organizzazioni umanitarie. Sono un disastro urbano. E, oramai, hanno, quasi tutti, 75 anni di vita. Avrebbero dovuto essere «temporanei».
I profughi palestinesi sono tali, caso unico al mondo, per «diritto ereditario». Sono i figli e i nipoti, discendenti «per linea paterna» delle famiglie palestinesi costrette ad abbandonare le loro terre e le loro case dopo la prima guerra arabo-israeliana, il conflitto del 1948 scoppiato dopo la nascita dello stato di Israele. Allora 750 mila palestinesi lasciarono le loro case. Israele occupò il 72% del territorio della Palestina contro il 56% stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite. Ciò che allora rimaneva di quella terra fu controllato dai Paesi arabi vicini, lo stato di Palestina non nacque. Per i palestinesi questa è stata la nakba, la catastrofe. Per assistere questi profughi, allora, fu creata l’Unrwa, United Nations Relief and Works Agency, agenzia delle Nazioni Unite. I profughi vennero così definiti: le «persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina fra il giugno del 1946 e il maggio del 1948» e che «hanno perso tanto le loro abitazioni quanto i loro mezzi di sussistenza a causa della guerra».
In 70 anni quei profughi sono diventati quasi sei milioni. Nella striscia di Gaza sono registrati come rifugiati un milione e settecentomila persone. Su poco più di due milioni di abitanti della striscia. L’80% di loro vive sotto la soglia di povertà e dipende (per cibo, acqua, salute, elettricità, fogne) dall’impegno dell’Unrwa. A fine novembre, Juliette Touma, direttrice della comunicazione dell’agenzia, ha reso noto che 99 loro dipendenti erano morti per i bombardamenti israeliani.
I campi profughi palestinesi, diventati città, sono 59 (altri conteggi ne aggiungono ancora quattro). Le Nazioni Unite scrivono: sono aree «ipercongestionate di edifici a più piani con vicoli stretti, fra gli ambienti urbani più densamente popolati al mondo». Ventiquattro sono in Cisgiordania, otto a Gaza. Gli altri si trovano tra Libano, Siria e Giordania. A Gaza, come in Cisgiordania, i campi sono labirinti, palazzi scalcinati cresciuti in altezza, costruzioni pericolose, fatiscenti, vicoli senza luce, sovraffollati, privi di fognature degne di questo nome. I terreni non appartengono a chi vi abita. Il 90% dell’acqua non è potabile. Il 40% dei suoi abitanti ha meno di 15 anni, l’età media è 18 anni. La metà di loro, secondo l’Unrwa, non riceve un’educazione accettabile. Oggi, a Gaza Nord, i campi sono cumuli di macerie.
Ai primi di novembre, Israele ha bombardato e attaccato, nel Nord di Gaza, il più grande degli otto campi profughi della striscia. Jabalia. Sono morte decine di palestinesi. L’esercito israeliano ha sostenuto che qui si trovava un centro di addestramento di Hamas e vi si nascondevano alcuni dei suoi capi militari. A Jabalia vivevano (erano registrate come profughi) 116 mila persone. In un’area di poco più di un chilometro quadrato (per capirsi: Padova è la città veneta con la più alta densità abitativa della regione: 2267 abitanti per chilometro quadrato). Le Nazioni Unite definiscono come «substandard» le condizioni di vita per i palestinesi a Jabalia.
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