Ho paura di credere
Si può avere paura di Dio? E, semmai dovessimo averne, per quale motivo? In uno dei testi più suggestivi del Primo Testamento leggiamo che l’uomo e la donna, posti da Dio nel giardino dell’Eden, dopo aver colto il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, si nascondono, per paura: «Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”» (Gen 3,9-10). La conseguenza di questa perdita di intimità con il loro creatore produce disarmonia, fuga, perdita di dignità, paura. La perdita della fiducia in Dio, che apre l’accesso all’albero della vita ma proibisce l’accesso all’albero della conoscenza del bene e del male, getta l’uomo in una condizione di paura, di precarietà, di nomadismo senza meta.
Dio pone un recinto, mette un limite all’uomo che è creatura limitata e incompiuta. Ma questo limite è tirannico o paterno? Vuole proteggere l’uomo dall’abisso della tracotanza e della superbia o piuttosto vuole castrarlo impedendogli di godere dei beni della vita? Dio è un padre che protegge le sue creature o è un tiranno che vuole solo cieca obbedienza ai suoi decreti? Dalla risposta che diamo a queste domande dipende molto della nostra relazione con Dio. Sarebbe un paradosso inconcepibile: Dio crea l’uomo e lo pone in un giardino di delizie per poi proibirgli di goderne? Darebbe la vita per poi proibire di viverla appieno? La questione, allora, forse è più complicata. I greci conoscevano il rischio intrinseco alla natura umana di superare il limite creaturale, una ostinata sopravvalutazione delle proprie forze: la hybris, la tracotanza orgogliosa di Prometeo che fu punita duramente dagli dei. Non a caso è nell’antica Grecia che nasce la tragedia, una cultura raffinata ma sostanzialmente priva di speranza, che è una categoria che dobbiamo alla tradizione ebraico-cristiana. E questa paura del giudizio divino, misto a diffidenza e sfiducia, è ancora tanto presente anche oggi.
Mi ha colpito moltissimo un fatto che mi è successo una mattina mentre stavo camminando lungo le vigne del Chianti. Di solito mentre cammino leggo, medito, qualche volta preparo le conferenze. Ormai di ritorno verso casa, mi si avvicinò una bambina di 8 anni, di origine afghana, dolcissima, intelligentissima, che mi chiese: «Che fai?», «Sto leggendo, devo preparare una lezione». «Ah! E di che parli?», «Parlo delle paure. Tu ce l’hai qualche paura?». La bambina mi guarda, ci pensa un po’ e mi dice: «Sì, ce l’ho una paura: ho paura di Dio». Caspita! A 8 anni avere paura di Dio è tanta roba (Cfr. S. Olianti, Il coraggio di vivere. Oltre le paure che ci abitano, Emp 2018, pp. 68-69).
La paura di Dio e del suo giudizio è molto più diffusa di quanto non si pensi, anche perché intrinsecamente legata ai sensi di colpa e a molte ingiunzioni colpevolizzanti ricevute nella prima infanzia. Solo una fiducia colma di speranza può disinnescare dal cuore dell’uomo il sospetto che Dio, colui che ci ha chiamato alla vita e che ci mantiene in vita, possa volere che ristagniamo in un tormento senza fine. Certamente non è questo il volto di Dio rivelato da Gesù, il quale ci ha insegnato a chiamarlo col nome di «Abbà, Padre» (Gal 4,6). Gesù ci ha mostrato il vero volto di Dio, che è pietà e tenerezza, misericordia e compassione, amore incondizionato che vince la paura della morte. Ma occorre farsi avvolgere da un’umile fiducia, dalla «bambina speranza, dalla piccola e caparbia speranza» come la chiama Charles Peguy.
Quante volte ci è capitato di sentir dire: «Finché c’è vita c’è speranza» e forse lo abbiamo detto anche noi. Io credo che sia più vero il contrario e che per vivere ci sia bisogno di speranza. Comunque la si giri, la vita è intrinsecamente legata alla speranza. Non si può vivere una vita piena e gustosa senza speranza, e questo ogni essere umano lo intuisce profondamente. Fatevi un regalo: leggete il Diario di Etty Hillesum, una ragazza olandese che è morta ad Auschwitz, e che ha scritto pagine bellissime prima di essere portata in quel terribile lager nazista (le ha compilate al campo di Westerbork). Scrive delle cose davvero meravigliose: «Ma cosa credete? Che non veda il filo spinato? Che non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo e in questo spicchio che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così!» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 2012).
Questa è la speranza! Anche nel posto più indicibile come un campo di concentramento tu vedi uno spicchio di cielo; e non è un’illusione, ma la capacità di scorgere anche nella desolazione una promessa di vita. La speranza è il vero motore della vita, necessario per intraprendere qualsiasi cammino. Il declino di una civiltà – e noi siamo già un pezzo avanti, amici miei, in questa direzione – comincia dal declino della speranza. Il peccato contro la speranza è il più insidioso di tutti. Ricordo una pagina stupenda di un libro che tanto ho amato nella mia giovinezza: «Il peccato contro la speranza – il più mortale di tutti – è forse il meglio accolto, il più accarezzato. Ci vuole molto tempo per riconoscerlo, e la tristezza che lo annuncia e lo precede è così dolce! È il più ricco degli elisir del demonio, la sua ambrosia» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1965, p.128). Rintracciamo, dunque, la caparbia speranza, la bambina speranza che, pur arrancando sugli scogli dello scoraggiamento e del cinismo, non si dà mai per vinta e ridona a ogni giorno la voglia di creare e immaginare il possibile.
La speranza è creativa e tenace, prepara il futuro e predispone a ciò che deve venire, sorregge la fragilità e la salute del corpo e orienta la mente ad affrontare le angosce dell’ignoto e dell’imponderabile. La speranza è la manna che, nel cammino, ci permette di continuare a muoverci nonostante la fatica e lo scoraggiamento, le contraddizioni inevitabili e le perdite dolorose. Vivo, dunque spero, scriveva Leopardi nei suoi momenti più intimi e autentici, perché anche la disperazione sarebbe impossibile se non si intuisse una speranza all’orizzonte. E forse la disperazione è proprio la consapevolezza di una intuizione potente: la vita è meravigliosa nella varietà infinita dei suoi colori, ma se non si trova la chiave per entrarci, lo spettacolo visto da fuori non è così affascinante. Quella chiave è la speranza (Cfr. S. Olianti, Di fronte alla morte impara la vita. Per un’etica della speranza, EMP 2022, p.159).
Perché le aspettative non siano illusorie ci vorrebbe un imprevisto, qualcosa di inaudito che irrompe e che, accadendo, illumini la vita con uno sguardo diverso. Lo aveva intuito Eugenio Montale nella splendida poesia Prima del viaggio, di cui riporto, suggestiva, solo la parte finale: «E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo» (E. Montale, Prima del viaggio, in L’opera in versi, Einaudi, 1980, p. 380). Bisogna avere il coraggio di dirselo, di farsi domande potenti, di superare la paura che sia stoltezza dirselo, fino a orientare l’inquietudine che ci abita verso il suo destino di senso, perché se il senso viene meno si dà solo disperazione (S. Olianti, Ivi, p.175). Per quanto mi riguarda, la cosa che più mi affascina del cristianesimo è il mistero dell’Incarnazione: Dio si è fatto bambino, piccolo, fragile, vulnerabile. Un bambino, che io sappia, non ha mai fatto paura a nessuno.
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