Canzoni di guerra
Una telefonata ai vigili del fuoco. «Che succede? Qui rimbomba tutto». «Rimanga a casa, signora». «È una guerra?». «Sì, sembra di sì». In pochi secondi l’incipit del documentario Zemli, Shcho Povilno Horyt’ (Songs of slow burning heart) ci porta nel pieno della guerra ucraina. Tra esplosioni e lacrime, grida e sirene. Presentato lo scorso settembre alla 81^ Mostra del cinema di Venezia, il lungometraggio diretto da Olha Zhurba racconta il conflitto attraverso un commovente ritratto collettivo. Non si sofferma mai sugli aspetti più macabri, ma procede nella narrazione attraverso dettagli e suoni, lasciando spesso spazio all’immaginazione del pubblico. «I corpi straziati e il sangue non scioccheranno mai come le sensazioni – ha spiegato la giovane regista –. In questo senso l’arte è troppo debole e non esiste un vero e proprio linguaggio per spiegare cosa significa la guerra». Da qui la scelta di catturare istanti di vita, come quello ripreso alla stazione centrale di Kyiv, a 30 km dalla prima linea, tra donne in lacrime che salgono sul treno con i figli in braccio e, in sottofondo, una voce che invita a recarsi nei rifugi sotterranei.
«Quando la guerra è iniziata – ricorda Olha Zhurba – mi sono chiesta cosa potessi fare per il mio Paese. Non volevo andarmene, ma desideravo rendermi utile». Così, armata di telecamera, la filmmaker ucraina ha iniziato a catturare la realtà, nella speranza che questa sorta di “filmati d’archivio” potessero tornare utili a chi volesse capire e studiare il conflitto russo-ucraino e, specie, alle nuove generazioni. Non a caso la scelta di filmare a telecamera ferma. «La telecamera mi ha permesso di mettere da parte l’emotività e di avere una sorta di “visione a distanza” di quanto stava accadendo». Ecco dunque spiegato il soffermarsi dell’obiettivo sulle crepe dei muri, sui calcinacci, sui pezzi di carro armato abbandonati in mezzo alla strada… Olha Zurba inquadra tende svolazzanti, case abbandonate, sedie rotte e alberi immersi nella solitudine. Poi ci porta in un punto raccolta per sfollati, al cospetto di una anziana signora che, trattenendo a stento le lacrime, si domanda «Come farò a vivere adesso?». E in una fabbrica di pane a Mykolaiv, dove la produzione continua nonostante i boati e le sirene di sottofondo. Dagli operai passiamo ai bambini di una scuola statale di Ternopil, costretti a sospendere l’esercizio di disegno per andarsi a riparare dalle bombe insieme alle loro maestre.
La guerra – ci insegna questo toccante documentario – è fatta di storie, di nomi e di volti. I volti di chi ha dovuto cambiare vita e abitudini, di chi ha perso affetti e identità. «In ogni famiglia ormai ci sono vittime della guerra e cittadini che sono andati a combattere. Ex manager nel campo dell’arte o del business che sono diventati soldati… – precisa Olha Zhurba –. Nel documentario ho scelto di raccontare quello che è successo a gran parte della nostra società». Fa parte di questa categoria di persone «trasformate» anche Ganna Vasik, una delle protagoniste della pellicola, che con l’arrivo dell’invasione russa, ha stravolto la propria vita e intrapreso la via militare al fronte. «Questo documentario non è importante solo per le future generazioni, ma anche per tutti gli spettatori europei di oggi. Spero che siano meno naif di quanto siamo stati noi. Perché molte persone dicevano che l’invasione sarebbe arrivata, ma non ci abbiamo creduto. Nessuno ora può permettersi di essere ignorante, è importante prendere posizione e scegliere da che parte stare, perché l’ignoranza uccide».
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