Manie di grandezza
«In quel tempo, si avvicinarono a Gesù, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse loro: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,35-45).
Quanto mi provoca questo brano! A una prima superficiale lettura, mi dicevo che, per quanto mi riguarda, non ho tutta questa bramosia di potere, di ottenere posti di prestigio. Non assomiglio affatto ai figli di Zebedeo. Da buon veneto mi basta una soppressa, del pane e un buon bicchiere di vino, insieme con mia moglie e con gli amici, per far diventare una giornata la più bella possibile. Tuttavia, andando in profondità, se inizio a domandarmi quanto vorrei essere riconosciuto, apprezzato, stimato, scopro che la dinamica presente nel brano mi si ripropone quotidianamente, in ogni discussione con i miei figli o con mia moglie. Una parte di me pensa di aver già acquisito il diritto di stare seduto su un trono: perché padre, perché marito, perché ho quasi 50 anni, perché sono psicoterapeuta, perché faccio formazione da vent’anni, perché i miei discorsi sono ponderati ed equilibrati, perché gli altri si sbagliano a pensarla diversamente da me dato che il mio ragionare è ragionevole (e la mia ragione mi dà sempre ragione), e per molti altri motivi.
La mia famiglia, fatta di moglie e tre figli, continuamente disconosce questa mia presunta regalità. Questo avviene quando pensano o agiscono in modo diverso da come farei io, secondo criteri che a me, ovviamente, sembrano irragionevoli. Continuamente mi sento spodestato dall’alterità di chi mi sta vicino. Loro non riconoscono il mio essere «speciale», il mio meritarmi di sedere alla destra del Maestro nella gloria. Non lo fanno… e hanno ragione loro. La famiglia, infatti, è il miglior antidoto che esista ai nostri velenosi deliri narcisistici. È la scogliera sulla quale va a infrangersi la nostra illusione di essere speciali, di avere la ragione costitutivamente dalla nostra parte. Ci ricorda che non siamo noi coloro a cui spetta il diritto di concedersi i posti d’onore.
Gesù mi ricorda che posso stare nella relazione con mia moglie e i miei figli in due modi: o come i governanti o come il Figlio dell’uomo. Come i governanti, vale a dire provando a impormi sulla mia famiglia, discutendo, ribadendo il mio «giusto» pensiero fino ad arrivare a dominare l’altro opprimendolo. Sappiamo bene che per dominare una nazione non c’è solo la via della forza militare (il che, a livello famigliare, equivale a usare dei modi forti e impositivi), ma anche la subdola modalità del clientelismo (in famiglia: faccio fare quello che vuole a mio figlio, in modo da poterlo avere dalla mia parte), quella della manipolazione comunicativa (dico a mia moglie quello che si aspetta in modo da «tenerla buona»), quella che fa leva sul benessere economico (se soddisfo ogni capriccio dei componenti della mia famiglia, essi saranno più benevoli nei miei confronti).
Oppure posso fare come il Figlio dell’uomo, svuotando me stesso da me stesso, mettendomi a servire la mia famiglia, rinunciando alla libertà di decidere se fare o non fare quel servizio ma facendolo e basta. Nelle discussioni in cui penso di aver ragione, smettendo di provare ad averla vinta, lasciando così che l’altro possa uscirne ancora con la sua idea integra. Tutto questo non significa che devo lasciar fare ai miei figli adolescenti tutto quello che vogliono, trasformandomi in una sorta di loro dipendente non stipendiato, ma che posso, pur continuando la mia opera educativa di padre, lasciare che loro siano quello che sono per l’età che hanno, senza pretendere che si conformino a quello che dico io solo perché lo dico io.
Questo brano del Vangelo mi mette quindi profondamente in discussione, perché mi costringe a ridimensionarmi, a imparare a servire gratuitamente, senza che l’altro se lo meriti, mi costringe a non sentirmi speciale. Questo brano mi offre l’occasione di imparare a donare la mia vita, smettendo di pretendere di ricevere affetto perché me lo merito, ma anzi diventando «grande» amando mia moglie e i miei figli, servendoli. Non sempre ci si riesce, ma si può sempre ripartire, ogni giorno, di nuovo.
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