Che cosa internet sa di noi?
Grazie al web comunichiamo, lavoriamo, ci informiamo, socializziamo, condividiamo, compriamo, ci divertiamo, ci istruiamo. Ma non è tutto gratis. E in un modo o nell’altro ci siamo dentro tutti, anche chi magari non lo vorrebbe, non sa nemmeno come si accende un computer o inorridisce di fronte a uno smartphone.Nel numero di giugno del «Messaggero» ci occupiamo di WhatsApp, di social network, delle privacy policy delle app, della vetrina Ask for me, popolatissima dai preadolescenti. Lo facciamo in compagnia degli esperti Salvatore Aranzulla e Giovanni Ziccardi, che dall’alto della loro competenza rispondono alla domanda del titolo. Di seguito invece per esteso l'intervista a Gianni Riotta, noto giornalista già direttore del Tg1 e del «Sole 24 ore», oggi visiting professor alla Princeton University e autore tra gli altri de Il web ci rende liberi? (Einaudi 2013), avvincente viaggio nel mondo digitale.
Riotta, che cosa internet sa di noi? Tutto. E non solo di chi è su internet, ma anche di chi non c’è, perché chiunque lascia una traccia di dati informatici: transazioni elettroniche, passaggi ai caselli autostradali, pagamento di ticket sanitari... La domanda è: chi poi ha davvero accesso o no a quei dati? Chi sa? La banca, il datore di lavoro, Google?
Esiste ancora la privacy così come la conoscevamo prima della rivoluzione digitale? Potrei parlarne per ore. Già la mia tesi di laurea alla Columbia University si intitolava Computer and privacy. Era il 1984: occuparsene trent’anni fa mi faceva sentire un pioniere. Oggi guardo alla questione con molto meno entusiasmo. Certo, avevo visto il tema, ma dalla prospettiva sbagliata: ci aspettavamo (Stefano Rodotà ancora è fermo a quell’impostazione) che i cittadini difendessero gelosamente i propri dati, a fronte degli attacchi di aziende e grandi burocrazie.
Invece? In cambio di accesso gratuito ai social network gli utenti hanno regalato i loro dati, spontaneamente e volentieri. Ai miei studenti lo spiego così: quando vado al supermercato e compro una scatoletta di tonno, io sono il cliente e il tonno la merce. Ma quando vado su Google non sono io il cliente, tant’è che non pago: io sono la merce. I clienti sono quelli che comprano i nostri dati pubblicitari. Il concetto di privacy si è evoluto, ma si è anche involuto… Si arriva a un punto in cui la privacy non esiste più. Guarda che cosa la gente posta!
Il web ci rende liberi? è uscito nel 2013: come lo aggiornerebbe dopo lo scandalo Datagate? Le spie spiano. Specie in tempi di terrorismo. Non c’è molto da scandalizzarci in proposito. L’errore della Nsa è di essere andata al di là della legge americana, o comunque ai confini tant’è che non sono seguiti grandi processi. Non va molto meglio nel nostro continente, perché gli europei parlano parlano, ma poi i francesi hanno un programma analogo, i tedeschi pure, tutti i Paesi hanno avviato un sistema di controllo dei metadata, ovvero l’intreccio dell’analisi dei dati. Per capirci: non è tanto il contenuto delle mie telefonate a essere registrato, ma chi chiamo e chi chiamano quelli che io chiamo.
I vari leaks, le fuoriuscite di dati riservati e la loro pubblicazione, aggiungono un altro tassello. L’ho detto: ormai non esiste più privacy. Tuttavia, siamo sicuri che questo sia giornalismo investigativo, come in tanti pure proclamano? Giornalismo investigativo non è ricevere una chiavetta usb e pubblicarne il contenuto. È anche chiedere: chi ti manda la chiavetta? Perché? Qual è il contenuto? Come mai i dati della Nsa, agenzia che, essendo statunitense, dovrebbe spiare Russia e Cina, quando Snowden li prende e pubblica sono imbarazzanti solo per gli americani e non imbarazzano affatto Russia e Cina? Perché Snowden va a vivere a Mosca? Poi magari è tutto pulito, ma mi piacerebbe conoscere le risposte.
E nel caso dei Panama papers? Guarda caso sono implicati la famiglia del leader cinese Xi Jinping, il migliore amico di Putin (Sergei Roldugin, ndr) e il suo consulente tributario (Yuri Kovalchuk, ndr), ma nessun americano di rilievo. Questi leaks non sono scoop: sono furti di dati che qualcuno fa, interessato a una causa. Ovviamente vanno pubblicati, ma a me interesserebbe anche sapere perché vengono distribuiti.
In Italia abbiamo appena festeggiato i 30 anni di internet: cosa ne pensa? Grazie a Dio mi trovavo negli Stati Uniti! Ho riso molto di quanto ho letto… Oggi tutti a celebrare, ma noi italiani siamo arrivati tardi su internet, e non solo: la nostra classe dirigente ha combattuto questa innovazione. La battaglia che la maggioranza fece contro internet portò la minoranza a illudersi che internet fosse l’arma dei buoni, giovani, studiosi… Internet è un luogo, è il luogo in cui il XXI secolo intercetta la realtà. Oggi Isis ha una presenza digitale straordinaria, e così le criminalità. Internet non è il luogo dei buoni: è il luogo nel quale buoni e cattivi si scontrano. Bisognerebbe provare a far prevalere i buoni, ma in questo momento non lo so come sia la partita…
Per approfondire, oltre all'articolo completo sul numero di giugno del «Messaggero di sant'Antonio», vedi anche la recensione a Internet, i nostri diritti di Anna Masera e Guido Scorza (Laterza 2016)