Cellulari a scuola, il dibattito è aperto
La recente norma del ministero dell’Istruzione e del merito che ha bandito l’uso di smartphone in classe (ma non di tablet e computer) pare saggia a molti adulti e si inserisce in un giro di vite globale che sta riguardando molti Paesi d’Europa e del mondo. Eppure, non convince tutti gli esperti e nemmeno tutti gli insegnanti, soprattutto quelli che, invece di contrastarne l’uso a priori, cercano di avvicinarsi alle nuove generazioni usando il loro linguaggio, sfruttando la connettività per attività didattiche e aiutando i ragazzi ad acquisire la capacità di sfruttare le potenzialità della Rete, evitandone i rischi. Non dimentichiamo che le più facili prede della disinformazione online sono le persone più avanti con gli anni, catapultate da adulte nel mondo digitale di cui non conoscono le regole e i tranelli.
Ciò non significa che sia un bene intrattenere i bambini piccoli, talvolta molto piccoli, concentrando la loro attenzione sul video invece che sul mondo da scoprire intorno a loro, ma ciò riguarda più le famiglie che la scuola. In classe tutti sono concordi che un cellulare sotto il banco rappresenti una importante fonte di distrazione e per questo in molte realtà già si applica la raccolta dei dispositivi all’ingresso in aula o almeno il divieto di accedervi durante le lezioni.
Quel che lascia più perplessi è l’idea che a scuola non si possano usare i cellulari in alcun modo, nemmeno nella didattica, anzi, come chiede qualcuno, che fino ai 14 anni i ragazzi non vi possano proprio accedere. Come si può pensare che una maggiore maturità (che poi, a quella età, è tutta da dimostrare) consenta di fare un uso più sano dell’agognato oggetto, una volta ottenuto, vedendo che intorno a loro gli adulti per primi non riescono a farne a meno? Un uso problematico della tecnologia (problematic smartphone usage, in gergo PSU) esiste, ma sembra che la maggiore età non ce ne renda immuni.
È chiaro che i nostri ragazzi accusano da tempo un malessere psicologico sempre più diffuso: in parte ciò è dovuto al fatto che oggi ne sono più consapevoli rispetto al passato, quando alla salute mentale veniva data minor attenzione e più difficilmente si otteneva una diagnosi. Nonostante ciò, è innegabile che i tassi di depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare, atti di autolesionismo in fasce di età sempre più giovani sono preoccupanti. Un fenomeno che non dipende solo dalla pandemia, ma che era evidente anche prima.
Già nel 2019 i pochi dati disponibili mostravano che i disturbi mentali diagnosticati tra gli adolescenti europei erano aumentati di quasi un terzo rispetto a trent’anni prima, quando erano adolescenti i nati negli anni Settanta. Ma è tutta colpa di internet e dei social media, soprattutto da quando il loro accesso è immediato e a portata di chiunque abbia in mano un telefonino? Su questo, la scienza non ha una risposta. Tra la fine del secolo scorso e il primo ventennio di questo, tutta la società, la famiglia, il modo di vivere, in Italia come in gran parte del mondo, hanno subito enormi cambiamenti. Dare soluzioni semplici a questioni complesse di solito non aiuta. Probabilmente anche in questo caso è così.
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