Il tempo del pensiero
Provate a effettuare una ricerca su Google, una qualsiasi. Volete preparare un risotto allo zafferano? In un battito di ciglia (per la precisione, 0,88 secondi) si possono ricevere quasi due milioni di ricette e consigli: nello stesso tempo, non riusciremmo neppure ad aprire il libro di cucina della nonna. Con le previsioni meteo il sistema è ancora più svelto: sono sufficienti appena 33 centesimi di secondo per sapere se domani pioverà o ci sarà il sole. Lo stesso è avvenuto anche con l’evoluzione digitale della fotografia: fino a una trentina d’anni fa, quando si scattavano le foto delle vacanze occorreva inviare il rullino allo sviluppo e attendere qualche giorno per ricevere le stampe, mentre oggi tutto si risolve con due tocchi sullo schermo dello smartphone, uno per fare la foto, l’altro per condividerla immediatamente con gli amici. Anche la moda viaggia senza freni e il fast fashion (con nuove collezioni ogni mese, o addirittura ogni settimana) ha annullato perfino l’alternarsi delle stagioni. La nostra epoca, con lo sviluppo arrembante della tecnologia, ha la sua «cifra» proprio nella velocità: tutto deve essere rapido, immediato, supersonico, senza interruzioni o blocchi, asap, ovvero as soon as possible, il prima possibile, come dicono gli americani.
Ormai non si scrivono nemmeno più lettere o biglietti d’auguri, ma si spediscono messaggini: secondo il 18° Rapporto Censis sulla comunicazione, l’83,6% degli italiani utilizza Whatsapp e tra i giovani si arriva addirittura al 93,4%. Nell’universo digitale, peraltro, i dialoghi sono sempre più stringati, infarciti di abbreviazioni ed emoticons, le classiche faccine che esprimono i sentimenti (allegria, dolore, rabbia). E se accanto al messaggio che abbiamo inviato non compare subito la spunta blu (la dimostrazione che il destinatario lo ha letto), già iniziamo a preoccuparci. Insomma, siamo impazienti e capricciosi, e andiamo sempre più veloci. Forse troppo. «La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnica ha regalato all’uomo», ha scritto Milan Kundera nel suo romanzo La lentezza (Adelphi). In parallelo, appunto, si fa sempre più urgente la necessità di recuperare il senso e il gusto della lentezza. Perché non possiamo accelerare all’infinito.
Un’esigenza del cervello
«In un mondo che corre vorticosamente, con logiche spesso incomprensibili, il problema della lentezza si affaccia alla mente con prepotenza, come una meta del pensiero e una via da percorrere», scrive il professor Lamberto Maffei, già direttore dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, nel suo Elogio della lentezza (Il Mulino). Occorre lentezza, «perché il cervello è una macchina lenta», ci spiega. Velocità e lentezza sono due concetti legati al senso del tempo: nelle sue facoltà più avanzate, come la parola, il pensiero, la riflessione, «il cervello ha bisogno di tempo», aggiunge. Un esempio può aiutarci a capire: «Quando stiamo viaggiando in treno e osserviamo il paesaggio dal finestrino, spesso non riusciamo a leggere immediatamente i nomi delle stazioni», sottolinea il professor Maffei. È sufficiente che il treno tenga una velocità sui 70-80 chilometri all’ora perché il cervello lento fatichi a organizzare le informazioni visive: figuriamoci poi quando sfreccia sui binari dell’alta velocità. Gli scienziati parlano di un «pensiero rapido» e di un «pensiero lento».
Le reazioni rapide agli stimoli sono connaturate da millenni all’essere umano e sono i cosiddetti riflessi: una luce improvvisa negli occhi ci fa immediatamente chiudere le palpebre, e se incontriamo una bestia feroce proviamo subito a fuggire. «Sono reazioni quasi automatiche, legate alla sopravvivenza – prosegue il neurobiologo –. Di sicuro erano presenti anche agli albori della nostra specie: Lucy, nostra antichissima progenitrice australopiteca che risale a due milioni di anni fa, aveva un cervello più piccolo rispetto all’Homo sapiens, eppure di certo anche in lei scattavano queste forme di autodifesa». Sono diversi invece i meccanismi della modalità a tempi lenti, propria degli animali superiori e particolarmente sviluppata nell’uomo. Tutto è legato a quella che il professor Maffei chiama la «rivoluzione della parola»: «Il cervello della parola è il cervello del tempo – ci dice –. Quando io parlo, devo articolare soggetto, predicato, complemento, insomma devo riflettere e costruire un discorso. E questo richiede un tempo che viene organizzato in una parte particolare del cervello, dove si sviluppano i centri del linguaggio».
La parola implica il pensiero, il ragionamento, la capacità di lasciare tempo al tempo, e anche al cervello. E tuttavia oggi le macchine (create proprio dall’uomo) elaborano dati a una velocità molto superiore a quella del nostro cervello: «Nei nostri studi abbiamo verificato che i neuroni funzionano con tempi misurabili in millesimi di secondi – rivela Lamberto Maffei –. Ma i tempi di trasmissione delle moderne apparecchiature digitali sono milioni di volte più veloci, addirittura nell’ordine dei nanosecondi». Noi vorremmo andare alla stessa velocità delle macchine, vorremmo emularle ma è impossibile, «e questo crea una discrasia tra quello che facciamo e quello che vorremmo fare».
La smania della velocità genera angoscia e frustrazione, e di certo in questi anni ha modificato anche i nostri comportamenti: «L’uomo moderno ha difficoltà a scrivere e perfino ad ascoltare, dice una parola e poi scappa – rimarca il professore –. Le email ormai sono ridotte a un testo essenziale, e i tweet sono come segni di pittura. Tutta la parte umanistica del nostro pensiero è ormai indubbiamente trascurata». Nel suo romanzo, Milan Kundera ci offre questa sua riflessione: «La nostra epoca si abbandona al demone della velocità, ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità».
Rallentare è rivoluzionario
«La velocità sta dando luogo a un’erosione culturale la cui portata non siamo ancora in grado di valutare», ricorda anche Gian Luigi Beccaria che ha pure dedicato un tributo alla lentezza nel suo saggio In contrattempo (Einaudi). Linguista e critico letterario, il professore si concentra appunto sugli effetti della velocità rispetto alla capacità di comprensione dei contenuti di un testo: «Per leggere e assimilare una pagina scritta, ognuno deve applicarsi ad essa seguendo un adeguato tempo lento di attenzione – scrive –. La velocità è una macchina di dispersione dell’attenzione, annulla la capacità di concentrazione. L’indugio regala invece un singolare senso del presente e del concreto». Certo, poter fare le cose velocemente può essere un vantaggio, ma si finisce per perdere l’attenzione al dettaglio. E si dimentica così che, anche nella pagina di un libro, è bello «scoprire quella pienezza per cui tutto ciò che è “espresso”, ogni piccolo episodio, così come ogni singolo aggettivo, metafora, allusione, diventa indizio importante, essenziale, rivelatore – prosegue Beccaria –: fosse pure un attimo, una fuggevole piega del volto, un sorriso, un lamento, un accenno».
Oggi il problema è certamente amplificato dalla straordinaria corsa delle tecnologie, ma già in passato c’era chi stigmatizzava la fretta, per esempio nella composizione letteraria. «I libri ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, così durano a proporzione di quello che costano», era il giudizio di Giacomo Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico. E non va bene scrivere velocemente, «stando su un piede solo», ammoniva Orazio nelle sue Satire. Nella sua analisi, il professor Beccaria ricorda Sir John Franklin (1786-1847) che era affetto da una sindrome della lentezza e veniva considerato un ritardato, «ma che della pazienza e della lentezza fece la sua guida e diventò uno dei più grandi esploratori artici», ispirando anche romanzi come La scoperta della lentezza di Sten Nadolny (Garzanti). «Ai frenetici, ai veloci certo dobbiamo moltissimo quanto all’agevolarci la vita per il disbrigo del vivere pratico – commenta il linguista –. Ma dobbiamo prenderli a modello? Spesso non sono che dei nevrotici. Finito il lavoro, difficilmente riescono a stare in compagnia con loro stessi».
La parola lentezza deriva dal termine latino lentus che ha un significato tutto particolare: esprime morbidezza, flessibilità, la capacità di un oggetto di essere elastico, pieghevole, quindi dà anche il senso della tenacia, della resistenza. La lentezza è sempre stata considerata una virtù: la fretta – sentenzia anche un proverbio – è cattiva consigliera. Nelle sue Vite dei Cesari, Svetonio introdusse un’esortazione, Festina lente, ovvero «Affrettati lentamente». Nel Rinascimento questo divenne anche il motto di Cosimo I de’ Medici, e Giorgio Vasari lo inserì tra gli affreschi del salone dei Cinquecento al Palazzo Vecchio di Firenze, con l’immagine di una tartaruga che porta sul suo carapace una grande vela gonfiata dal vento: un evidente contrasto che ci invita a recuperare gli spazi di riflessione e ci ricorda che prima di agire è molto più saggio pensarci su.
Allora, come fare? Qualche consiglio per «riconquistare il proprio tempo» ci arriva anche dal filosofo Stéphane Szerman, che con la giornalista Isabelle Gravillon ha pubblicato L’arte della lentezza (Edizioni Messaggero Padova): occorre «vincere il senso di colpa che deriva dal non correre tutto il giorno», sbarazzarsi di molte attività «mangia tempo» (dalle telefonate troppo lunghe al perfezionismo a oltranza) che lasciano poco spazio alla libertà, gerarchizzare le attività, evitare di essere schiavi delle email o delle notifiche, accettare gli imprevisti. Anche dedicarsi a un momento di fantasticheria, ogni tanto, può essere un atto rivoluzionario e lo stesso professor Maffei, nel suo libro più recente, Solo i folli cambieranno il mondo (Il Mulino), sottolinea come la creatività possa essere nutrita proprio da un pensiero divergente: «Certo, in questo mondo anche rallentare può sembrare una follia», ammette.
Sentinelle di lentezza
In questi anni ha preso sempre più piede il movimento slow che identifica nella lentezza la chiave per il cambiamento. Essere slow non vuol dire essere fuori dal tempo, isolati ed eremitici, ma «significa controllare i ritmi della propria esistenza, decidere quanto si vuole essere veloci in ogni contesto», ha ribadito Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, associazione internazionale dedita alla cura del cibo, che va coltivato, cucinato e mangiato con calma. In una conversazione con Carl Honoré per il libro Elogio della lentezza. Rallentare per vivere meglio (Rizzoli), Petrini racconta la sua filosofia: «Se oggi voglio andare forte, vado forte; se domani voglio andare piano, vado piano. Quello per cui combattiamo è il diritto di scegliere i nostri tempi».
Ispirata al movimento Slow Food è anche la rete della Cittaslow, i luoghi del buon vivere, che compie 25 anni: dalla Toscana si è estesa a molte località italiane, e nel mondo oggi abbraccia 296 località in 33 Paesi. «Siamo alla ricerca di città animate da uomini curiosi del tempo ritrovato, ricche di piazze, di teatri, di botteghe, di caffè, di ristoranti, di luoghi dello spirito, di paesaggi non violati, di artigiani affascinanti, dove l’uomo ancora riconosce il lento, benefico succedersi delle stagioni, ritmato dalla genuinità dei prodotti, rispettosi del gusto e della salute, della spontaneità dei riti», è scritto nel loro manifesto. Sono luoghi dove è bello passeggiare, sedersi a un tavolino, osservare il paesaggio, ritrovare il piacere di qualcosa che ci sembra perduto. «Se il nostro cervello è sempre occupato da pensieri veloci, non ha né tempo né voglia di dedicarsi ad altro, come ammirare un tramonto o scoprire la bellezza di un fiore», fa notare il professor Maffei.
Si incastona nel turismo slow anche la rete dei cammini, i percorsi da affrontare con pazienza, magari nel silenzio e nella contemplazione: secondo un’indagine presentata da Terre di mezzo, nel 2022 in Italia sono state consegnate e registrate 86 mila Credenziali, ovvero i documenti di partenza dei cammini, mentre 33.014 persone hanno ricevuto un Testimonium, l’attestato che certifica che il camminatore è arrivato al traguardo. Si stima che nel 2022 in Italia almeno 123 mila persone abbiano intrapreso un cammino.
Forse non tutti sanno che esiste anche una Giornata della lentezza, il primo lunedì di maggio (quest’anno, alla sua 18ª edizione, sarà il 6 maggio). L’ha ideata l’associazione «Vivere con lentezza», fondata da Bruno Contigiani e da alcuni amici. Nei primi anni a Milano, quasi come una provocazione, si collocavano tra piazza Duomo e piazza San Babila e con i loro «velox» appioppavano simboliche multe ai passanti troppo frettolosi. Già nella home page del sito dell’associazione si possono leggere alcuni efficaci comandamenti, anzi ComandaLenti, che in fondo sono semplici pratiche di educazione e di rispetto verso se stessi e verso gli altri: «Svegliamoci cinque minuti prima del solito per farci la barba, truccarci o far colazione senza fretta e con un pizzico di allegria. Se siamo in coda nel traffico o alla cassa di un supermercato, evitiamo di arrabbiarci e usiamo questo tempo per programmare mentalmente la serata o per scambiare due chiacchiere con il vicino di carrello. Quando entriamo in un bar per un caffè, ricordiamoci di salutare il barista, gustare il caffè e risalutare barista e cassiera al momento dell’uscita. Scriviamo sms e messaggi senza simboli o abbreviazioni, magari iniziando con caro o cara... E, quando è possibile, evitiamo di fare due cose contemporaneamente come telefonare e scrivere al computer, altrimenti rischiamo di diventare scortesi, imprecisi e approssimativi».
E dal 7 al 9 giugno a Parma si terrà la decima edizione del Festival della Lentezza, «un momento per staccare, divertirsi e riflettere insieme sul tempo che viviamo e sulle sue parole chiave: sostenibilità, inclusione, creatività, cambiamento», spiegano gli organizzatori. La lentezza è declinata nell’ecologia dei rapporti umani, nel rispetto del territorio e delle sue risorse. «La nostalgia del futuro» è il tema scelto per il festival di quest’anno, che prende spunto da una frase del poeta portoghese Fernando Pessoa, «Non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state». Nel futuro occorre entrare con curiosità, con passione, con idee, ma soprattutto senza fretta, con sapiente lentezza. Ad andare troppo veloci, qualcosa si smarrisce lungo la strada. E dopo non si ritrova più.
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