La cucina del Santo
San Francesco d’Assisi è spesso ricordato per le sue quaresime, tempi di preghiera e digiuno vissuti in preparazione alle feste più importanti, come il Natale, la Pasqua e memoria di san Michele arcangelo. Eppure era attento ai bisogni di ciascuno, non volendo che alcuno si imponesse delle rinunce più gravi di quelle che poteva sopportare. A proposito, degno di nota è l’episodio del frate che, nel mezzo della notte, grida e si lamenta che sta morendo di fame. Francesco fa preparare la mensa e «affinché quel fratello non si vergognasse a mangiare da solo, si posero tutti a mangiare insieme con lui», come racconta la Leggenda Perugina (cfr. Fonti Francescane n. 1568). Mangiare insieme è uno dei momenti in cui si manifesta la vita fraterna e comunitaria: anche nelle Costituzioni dell’Ordine dei frati minori conventuali troviamo l’invito a partecipare «alla stessa mensa comune, esprimendo così il mutuo amore e la somiglianza con il convito eucaristico» (cfr. Costituzioni n. 6).
Che cosa sappiamo di questo aspetto della vita dei frati del passato? Negli archivi possiamo trovare varie notizie, anzitutto per quanto riguarda i luoghi. Da un documento di inizio 1800 (Memorie riguardanti il convento di sant’Antonio in Padova) apprendiamo che la cucina di allora doveva trovarsi nell’ala orientale del cosiddetto quarto chiostro (probabilmente quello di Luca Belludi), mentre a nord c’erano la cantina e il granaio. Il refettorio, invece, era nell’attuale sala dello Studio teologico, nel lato sud del Chiostro della Magnolia.
Un altro luogo importante è l’orto del convento, nelle adiacenze dello stesso. Nell’archivio Sartori è riportata una nota della prima metà del 1700 che così recita: «Possiede il Convento del Santo in Padova un Horto contiguo al Convento. Confina da una parte la strada di Pontecorbo, dall’altra le reggioni del convento medemo possesse dalli eredi del sig. Procuratore Cornaro Piscopia, dall’altra il fiume, et dall’altra il loco detto il Paradiso, et Camere de Padri». Quest’orto contribuiva alle necessità alimentari dei religiosi, anche grazie a un vigneto col quale si produceva, almeno in parte, il vino da tavola e per la Messa.
Nel testo Le «Memorie» (1751-91) di fra Francescantonio Pigna (pubblicato a cura di V. Gamboso, ed. Centro Studi Antoniani), si riferisce anche della presenza dei maiali; infatti, nel gennaio del 1766, il religioso annota: «In quest’anno [...] sono stati fatti i salami, e in questi sonosi ammazzati porci numero dieci; sei d’affitto, e quatro comprati. In refettorio poi si diede ai frati torta fatta del sangue, per due volte, come pure li ossi più buoni, li altri grossi sono stati venduti; anche un pane a testa fu dato ai religiosi, lavorato con li grassi dell’unto, o strutto. Si fabricò un seraglio di tavole in cantina per conservar li detti salami». Tuttavia, verso la fine dello stesso anno, in ottobre «fu presa parte dal capitolo conventuale dai padri del Consiglio di non fare più salami in convento, non avendo avuto vantaggio, anzi più tosto discapito, essendo andati buona parte di male».
Il motivo del deterioramento del cibo può essere anche ricondotto alla scarsità igienica; tuttavia troviamo delle attenzioni in quest’ambito: «In quest’anno 1782 [...] fu introdotto l’uso delle majoliche in refettorio in luogo degli stagni; e ciò per pulizzia» (cfr. Le «Memorie», p. 186) e ancora, il 25 agosto 1831, «in questa sera è stà il padre guardiano in cucina a racomandar la netizia [nettezza] e la pulicia nel preparar i cibi, il qual è la medicina più bella per il mal pestifero». Quest’ultima citazione viene da una fonte molto interessante: il diario di un frate, cuoco del convento attorno al 1830 (cfr. lo studio A tavola nel convento del Santo a cura di Stefania Malavasi, ed. Centro Studi Antoniani). In esso vengono riportati i menu del tempo, nei quali non mancava mai la minestra, la carne o il pesce, le verdure e il dolce nei giorni di festa.
Se da un lato c’è una certa ripetitività, ci sono anche delle specialità nella cucina del frate, soprattutto nelle occasioni solenni. Ad esempio, in occasione di una professione perpetua, il 22 gennaio 1829, il cuoco riporta di un banchetto con sforcane (gallinelle d’acqua), 28 colombini, 3 germani reali, 10 anatre acquatiche; il tutto arrosto. Inoltre «pero d’inverno» (forse intende la pera decana d’inverno) con prosciutto. Da bere il vino di Breganze (odierno Torcolato), e per finire la focaccia, la «bocca di dama» (torta a base di mandorle, zucchero e tuorli d’uovo, aromatizzata con vaniglia e cannella), caffè, rosolio e spumiglie (cfr. A tavola nel convento del Santo, p. 7). In un’altra occasione, la solennità di sant’Antonio del 13 giugno 1831 (anniversario importante: erano i 600 anni dalla morte del Santo), il frate scrive: «Oggi non facio alcuna memoria, per la vargietà di piata che vi erra» e poi ricorda le varie tavole che ha dovuto servire, cioè quella in noviziato, quella in refettorio con tre vescovi e trenta persone di riguardo, in seguito, alle tre pomeridiane, di nuovo in refettorio, e infine ha potuto “pranzare” anche lui con quelli della cucina verso le sei di sera.
Non è però facile far da mangiare per così tante persone e sono curiose le annotazioni del nostro cuoco a commento di lamentele o proteste da parte dei frati. Ad esempio, la sera del 12 febbraio 1829, il cuoco serve carni accompagnate da radicchio e frittata, «ma di queste due ultime parmi che i no sia stà troppo contenti. Ma ghe vul pazienza: non è posibile in una comunità cossì grande». Il frate riconosce anche i suoi errori: la sera del 26 febbraio 1829, serve pollo, vitello e maiale, «ma queste a tutti non le gha gradite, e de fato le giera [erano] come sole de scarpa senza sapor»; oppure, il 25 ottobre 1831, manca sale alla ministra «e per questo il padre Schinali con ragione si ha lamentà».
In qualche occasione, però, nei suoi appunti richiama l’atteggiamento da avere nel prendere cibo, come questo invito a mangiare «quello che passa il convento»: «È una cosa bella tor do [prendere] tutti quela piatanza che ghe passa per davanti, come dice il manuale o la Regola stessa dei Conventuali di S. Francesco» (11 marzo 1829). I rimproveri che riporta nel diario diventano più eloquenti in un caso particolare: padre Favaro, il 29 luglio 1831, va da lui infuriato in cucina esclamando: «Deme [datemi] i limoni; e io ne volio due al giorno». Il nostro frate cuoco commenta evidenziando la prudenza del frate, che gli ha parlato in cucina e non davanti a tutti, ma allo stesso tempo rimarca: «Alle volte sta bene il taciere» e «non sta ben ’sto dir “io volgio” in un convento di religiosi…».
La tavola è sempre e comunque rimasta uno dei luoghi privilegiati della fraternità, sinonimo di accoglienza reciproca e spazio in cui ci si nutre non solo del cibo materiale, ma anche della presenza e della compagnia degli altri.
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