La peste
La vita nella comunità del Santo è sempre continuata tra alti e bassi. Tra i momenti più difficili possiamo annoverare il flagello delle epidemie di peste che colpirono Padova in diverse occasioni. Vogliamo, in particolare, ricordare il contagio del 1576 e quello del 1630.
La peste del 1576
Già le prime avvisaglie della peste si erano avute a Venezia, nel 1575; per questo, la Chiesa padovana aveva iniziato a implorare l’aiuto del Signore, soprattutto attraverso delle manifestazioni pubbliche, come si legge in alcuni documenti del tempo: «Per la cessazione della peste ossia per impetrarla si fa il 14 settembre una processione a Santa Giustina, il 16 una seconda a Sant’Antonio, il 17 una terza con il Santissimo e le Quarant’ore in Duomo, il 19 una quarta con il Santissimo». Queste pratiche proseguono fino alla fine del contagio, avvenuta nel febbraio del 1577: durante il mese di gennaio, si effettuano processioni a Santa Giustina, al Santo (il 20) e al Carmine. Un’interessante testimonianza degli eventi, quasi in presa diretta, ci viene dal testo Il successo della peste occorsa in Padova l’anno MDLXXVI, pubblicato a Venezia nel 1577, opera di Alessandro Canobbio, notaio veronese e segretario del vescovo di Padova Niccolò Ormaneto.
Il primo decesso tra i frati risale agli inizi di agosto del 1576; nella sua raccolta documentale, padre Antonio Sartori afferma che, in settembre, «per le penurie di quel tempo, per l’improvvisa pestilenza, e per molte altre cause, il convento si trovava in non poca necessità, anzi, era minacciato dalla più grande rovina. Erano morti alcuni padri sia del convento che dello Studio, come l’assistente dell’Arca, il campanaro e altri. Il male invece di scemare, cresceva». Particolarmente difficile risulta il compito del Provinciale, padre Marino Moro, superiore della giurisdizione che comprendeva anche il convento del Santo: come svolgere nel modo migliore il suo servizio? «Il padre Provinciale avrebbe voluto, all’annunzio che in Padova c’era la peste, corrervi e rimanere in quel convento, ma ne fu distolto dalla constatazione che così non avrebbe più potuto comunicare con tutti gli altri frati. A Padova erano morti, dice lui, molti padri e frati».
L’inasprirsi della peste porta come conseguenza una difficoltà a provvedere alle cure dei malati; anche i medici che visitano i frati del convento, iniziano ad addurre scuse per non compiere il loro dovere, temendo il contagio, come leggiamo in un passaggio della cronaca del tempo (28 settembre): «Come nel vangelo di Luca (14,18) si dice: “Ho comprato un campo, e devo andare a vederlo” e anche gli altri invitati si scusano in modo simile, così (che è la cosa peggiore) fanno questi nostri medici del convento i quali ricevono denaro, o un assegno sottoscritto dal Consiglio dei Padri, e poi si rifiutano di farci visita nei momenti di maggiore necessità e di prendersi cura dei nostri fratelli infermi». Un solo dottore presta il suo servizio: è il signor Nicolucio de Negri da Mont’Albodo, il quale è «venuto con tant’amore, et carità in questi tempi sospetti a visitar i padri infermi in questo nostro sacro convento senza alcun premio». Pertanto, «havendo di già veduto tutti noi molte volte, et molte isperienze delle virtù sue» viene eletto medico del convento.
Molteplici sono le testimonianze di morti tra i frati, anche giovani: «Muore cantando i salmi fra Alessandro Badia chierico novizio di buona indole, ottime speranze, di santi costumi, di molte virtù. Sepolto nel chiostro del Paradiso» (9 novembre 1576). Nel corso di un anno e mezzo perdono la vita circa 20 frati su un totale di un centinaio, in linea con la percentuale di vittime della città di Padova (circa settemila su 35 mila abitanti). Passata la calamità, la comunità si riprende in fretta, arrivando nel 1590 al numero esorbitante di «155 bocche da sfamare» tra padri, chierici, fratini, lettori, baccellieri e studenti.
Il contagio del 1630
Ci spostiamo un po’ avanti, nel 1629: alcune morti sospette, causate da un «morbo veloce», tra cui quella del provinciale appena eletto padre Francesco Benetti, sono i prodromi di quella che sarà la tristemente famosa peste del 1630, descritta anche ne I Promessi sposi. Stavolta, a perdere la vita è più di un terzo della popolazione della Repubblica Veneta, nel periodo dal luglio del 1630 all’ottobre del 1631. Padova viene decimata: più della metà della popolazione muore. In tale situazione, per evitare l’ulteriore diffusione del contagio, vengono vietati gli spostamenti in entrata e uscita dalla città: essendo impossibile riscuotere le granaglie e gli affitti, anche la comunità del Santo viene ridotta alla fame. Eppure, non vengono proibite le aggregazioni di gente nelle chiese, né le processioni per le vie cittadine; per questo viene celebrata anche la solenne festa di sant’Antonio il 13 giugno. Molti frati si distinguono per carità e per generosità: tra loro, il commissario generale, padre Michele Stella (il quale va a sostituire padre Benetti) che profonde i suoi sforzi affinché la vita materiale e spirituale della comunità possa continuare. Altri religiosi, invece, si comportano male: alcuni, forse per fame, rubano calici o altre cose; altri, usciti dal convento, entrano di notte per rubare.
A fine agosto del 1630 muore anche padre Filippo Fabri, celebre teologo: il suo decesso non avviene per la peste, ma il morbo ha delle conseguenze funeste per i suoi manoscritti. Questi, infatti, erano stati consegnati al curatore della biblioteca dello Studio teologico del Santo, Felice Osio, il quale, un anno più tardi, muore di peste e tutto quello che si trova nella sua abitazione, compresi i manoscritti di Fabri, viene bruciato.
A pesare ulteriormente sulla già grave situazione interviene, nel gennaio del 1631, il divieto da parte del Papa ai frati minori conventuali di accogliere nuove vocazioni, in seguito alle notizie giunte da parte di diverse congregazioni sulla carente formazione nelle comunità. Il bisogno di frati nei conventi era estremo, per cui padre Michele Stella rivolge più volte suppliche per il bene della provincia, affinché gli fosse concessa la facoltà di accogliere nuovamente i novizi: alla fine «per il favore di Dio» la ottiene e fa comunicare subito ai conventi che «se qualcuno desiderasse entrare nella Religione, si rechi al più presto possibile al Capitolo per l’approvazione e l’esame». Per questo, padre Michele viene riconosciuto meritevole di essere annoverato tra i Patres Provinciae e viene considerato come se fosse stato un vero ministro provinciale (pur non essendo stato eletto, ma avendone effettivamente svolto la funzione).
Il fiero morbo ha portato in questi e altri tempi un gran danno alla popolazione e ai frati; ma non è venuta meno la devozione al Santo né la sua protezione, alla quale con tanta insistenza e intensità i padovani e le genti attorno si sono affidati.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!