Le foreste italiane «crescono»
Vorrei chiedere ai «miei» cerri del bosco di Montepiano, là nelle montagne lucane, cosa ne pensano. Le foreste italiane, negli ultimi dieci anni, si sono estese del 20% in più. Undici milioni e passa di ettari. Il 37% del territorio italiano, oggi, è ricoperto da boschi. Un terzo dell’Italia. Nel 1936, secondo la Carta Forestale del Regno, gli ettari erano la metà: sei milioni e trecentomila ettari. In novanta anni, le foreste italiane si sono sempre più estese, sono arrivate a ridosso dei paesi di montagna. Statistiche che mi sorprendono, e mi strappano un sorriso soddisfatto. Solo la Spagna, in Europa, ha più foreste di noi. Ma subito dopo arrivano le contronotizie, chiedo ad amici forestali: i «boschi gestiti» sono solo 980 mila ettari (anche loro, per fortuna, in aumento, ma rimangono meno di un decimo). La crescita delle foreste è dovuta all’abbandono delle colline e delle montagne, allo spopolamento dell’Italia interna, alle migrazioni verso le città, all’incuria. Rimangono in pochi a coltivare campi e gli alberi riconquistano, con la loro pazienza, gli spazi lasciati deserti dagli uomini. Il bosco si chiude su sé stesso e cancella praterie, radure e pascoli. È il rewilding.
Nel mondo i calcoli delle diverse organizzazioni internazionali rivelano le nostre contraddizioni e schizofrenie: negli ultimi trent’anni, nel 43% dei Paesi la superficie delle foreste si è fortemente ridotta. Soprattutto nelle Afriche e in Latinoamerica. Nel 38%, al contrario, è aumentata. Quattro miliardi di ettari del nostro pianeta sono occupati dagli alberi. Negli ultimi trentacinque anni sono scomparsi 420 milioni di ettari di foreste. La deforestazione non si è mai arrestata in Amazzonia, in Congo, in Indonesia. Cina, Australia e India, all’opposto, contribuiscono all’aumento delle foreste. E noi, nel nostro piccolo.
Torniamo all’Italia. Altro dato sconcertante: nonostante la disponibilità di boschi, importiamo l’80% del legname che ci è necessario. Le foreste tendono a crescere nei paesaggi montuosi. Si diradano in pianura, fin quasi a scomparire di fronte a urbanizzazioni e agricolture estensive. Montagne e pianure, due panorami contrapposti. Mi raccontano che non vi è accordo nella comunità dei tecnici forestali e tra gli ambientalisti: vi è chi vorrebbe che i boschi non fossero toccati e chi invece sostiene la necessità di una gestione saggia del patrimonio boschivo. Le nuove foreste avanzate nei terreni abbandonati sono fragili, con un sottobosco impenetrabile, il legname che se ne può ricavare è di qualità scadente. La proprietà dei boschi è frammentata: oltre il 60% delle foreste italiane appartiene a privati, e spesso sono piccole estensioni individuali. Mi spiegano ancora: «Un bosco non gestito corre un rischio maggiore di incendi, è più debole, vulnerabile alle epidemie e non garantisce più la stabilità dei versanti sui quali si trova».
La tempesta Vaia, nell’autunno del 2018, ha abbattuto nel Nord-Est italiano 14 milioni di alberi. In gran parte abeti rossi piantati dopo la prima guerra mondiale. Hanno radici superficiali, sono stati aggrediti dal riscaldamento climatico. Nessuno, ottanta anni fa, pensò che un bosco misto sarebbe stato ben più resistente di una «monocoltura» arborea. Conseguenza della catastrofe di Vaia è stato il diffondersi del bostrico, un coleottero capace di scavare gallerie infinite negli abeti rossi fino a impedire la circolazione della linfa vitale e provocare la morte dell’albero. Si calcola che i danni che il bostrico sta provocando siano pari a quelli causati da Vaia. Vi è chi propone di conservare le radure «aperte» dalla tempesta, in modo da creare una diversità di ecosistemi.
Interrogo i vecchi del paese vicino alla foresta di Montepiano. Si chiama Accettura, ed è celebre per i suoi «riti arborei» che si svolgono ogni primavera. Ogni anno l’albero più bello viene sacrificato come devozione a san Giuliano, santo protettore del paese. Trasformazione di un arcaico rito di fertilità. Il bosco è bellissimo, un luogo sacro di cerri colonnari che sfiorano il cielo: «Ne abbiamo avuto cura, non lo abbiamo mai abbandonato. I suoi alberi sono diventati le traversine delle ferrovie italiane, eppure, il bosco è ben vivo, forte, tenace». Quando il cerro della Festa, il Maggio, cade a terra, vi è chi ha già piantato i nuovi alberi.
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