L’incendio della Basilica
Era la notte tra il 28 e il 29 marzo 1749 quando un furioso incendio devastò buona parte della Basilica di Sant’Antonio. Una catastrofe che impressionò molto la città e non solo. Sicuramente non dovevano essere mancati altri piccoli incendi – domati senza danni eccessivi – in una struttura che ha molti inserti lignei, ma nessuno fu così drammaticamente tragico come quello del 1749, tanto da lasciare molte tracce narrative: sono almeno quattro le relazioni coeve all’evento e varie le stampe che riproducono il disastro.
Da che cosa fu provocato è difficile stabilirlo, non essendo mai stata trovata una causa plausibile. Una voce popolare, riportata nella cronaca dell’abate Giuseppe Gennari, riferisce di uno scaldino lasciato inavvertitamente acceso da una povera vecchietta presso un confessionale a sinistra dell’ambulacro della chiesa, il quale, attizzandosi, fu la causa determinante. Solo una voce? Qualche fondamento doveva averlo, se la presidenza della Veneranda Arca (la «fabbriceria» che con i frati gestiva la Basilica) decise di assumere un «bastoniere» per tenere alla larga i vari questuanti che si aggiravano all’interno della chiesa.
Il segnale che qualcosa non andava venne dato dal latrare dei cani che, a partire dal ’600 (e fino agli anni Novanta del secolo scorso), venivano collocati nottetempo in Basilica per dissuadere eventuali ladri che si fossero introdotti. L’allarme si propagò subito, con i rintocchi della campana a martello che, oltre a far accorrere i frati del convento, richiamò tutta la città. Il fuoco, che era partito dal confessionale a sinistra del tornacoro, si propagò velocemente a destra, attizzato dall’abbondante presenza di materiale ligneo: i preziosi stalli lignei intarsiati del coro (opera dei Canozi e perduti per sempre), le cantorie lignee, i due grandi organi vicini all’altare maggiore.
Penetrando negli abbaini del campanile di destra, l’incendio attaccò il castello che sorreggeva le campane fino a fonderle, facendole diventare una palla infuocata. Un vento furioso, poi, aveva contribuito a propagare le fiamme, che giunsero così a bruciare e fondere il piombo delle calotte delle cupole: quella del presbiterio, la cupola tronco-conica posta al centro della Basilica con la guglia dell’angelo, e quella sovrastante la cappella di San Giacomo, mentre non aveva raggiunto – e la cosa fu considerata quasi un miracolo – la cupola sopra la cappella dell’Arca. Fu un vero disastro, con il piombo fuso che colava, i cui resti sono visibili a tutt’oggi nel percorso all’interno delle cupole.
Nel parapiglia creatosi – tra frati che tentavano di salvare il salvabile, soccorritori arrivati da fuori e il fuoco che stava invadendo anche il convento –, la preoccupazione era che l’incendio non raggiungesse la Cappella delle reliquie (inaugurata da poco) con il suo prezioso materiale sacro. Nell’impossibilità di entrarvi dall’esterno, undici persone, tra frati e soccorritori, decise a tutto, con una spugna d’acqua in bocca, riuscirono finalmente a penetrare nella cappella, superando fiamme e fumo. Fu padre Antonio Filarolo «sovrintendente alle reliquie», che con un pugno spaccò le vetrine mettendo in salvo le preziose reliquie antoniane della lingua e del mento.
A dare man forte nell’opera di spegnimento erano intervenuti i «bombardieri» (pompieri) della città e i soldati con il capitano Dolfin per organizzare gli interventi e far rispettare l’ordine pubblico alla folla che si era ammassata. Era accorso anche il vescovo della città, il cardinal Carlo Rezzonico, in lacrime per il disastro mentre «con affetto ben proporzionato al suo gran cuore pregava il grande Iddio di avere pietà», come dice la cronaca di un testimone diretto.
L’incendio si protrasse per circa dieci ore, estinguendosi solo verso mezzogiorno e lasciando l’impressione che la chiesa fosse ormai «un misero avanzo di un’inondazione ed incursione de’ Vandali e de’ Goti», secondo le parole di una delle relazioni rimasteci: quasi metà della Basilica era andata perduta. Spento l’incendio, non si spense però il desiderio e la decisa volontà di una pronta ricostruzione. Già nei giorni successivi, in coincidenza con la Domenica delle Palme, la Basilica poteva essere riaperta parzialmente al culto; il 1° aprile si era svolta una solenne processione presieduta dal vescovo, nella quale il francescano conventuale padre Carlo Antonio Vipera, uno tra i più celebri predicatori del tempo, aveva tenuto una infiammata (è il caso di dirlo!) predica per «riscaldare» l’impegno alla ricostruzione.
Un celebre ingegnere dell’Università patavina, Giovanni Poleni, aggirandosi tra le rovine, aveva compiuto una ricognizione dei danni, calcolando un impegno economico per 63.300 ducati. La risposta fu pronta e generosa, attraverso donazioni locali e grazie all’impegno diretto del governo della Serenissima Repubblica di Venezia, che mise a disposizione 6.000 ducati, permettendo – cosa rara per allora – l’arrivo a Padova degli «arsenalotti», esperti nella lavorazione del legname, e portando dall’arsenale di Venezia fasciami di nave tutt’ora visibili nell’utilizzo fatto per la ricostruzione della cupola tronco-conica. E la riedificazione fu rapida, sostenuta dalla ferma volontà di chiudere una ferita che troppo sanguinava nel vedere devastato il Santuario che stava nel cuore di tanti fedeli. Ancora oggi è emozionante poter vedere, girando per i passaggi interni delle cupole, i segni lasciati dal fuoco distruttore ed è commovente constatare il desiderio che presto e bene tutto tornasse come prima, a «laude di Dio e del suo servo Antonio»!
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