Maria e il Mediterraneo

Gli occhi di Maria sono rivolti verso il mare. Verso il Mediterraneo. Occhi profondi, sempre stupiti dalla sua bellezza e dal suo fascino. Dalla sua luce meridiana. Occhi di colpo rabbuiati, piangenti, addolorati: centosedici persone annegate al largo delle coste libiche alla vigilia del Natale. La crudeltà degli uomini. Questa tragedia ridotta a normale notizia di cronaca. Guardo anch’io questo mare, la linea del suo orizzonte. Mare maledetto, mare benedetto. E ricordo le cento volte in cui lo ho attraversato. Verso la costa africana. Per poi tornare alle isole greche e italiane, isole del Sud. Un andirivieni instancabile, felice. Pensavamo al Mediterraneo come a un luogo di scambi, di amicizie solide, di relazioni, di commerci possibili, di culture meticce. Invece, i primi venticinque anni di questo nuovo millennio ci hanno tolto molte illusioni: in questo mare si muore a migliaia, si sono consumate guerre non dichiarate, sono accadute tragedie lungo le sue coste, si confrontano ambizioni smodate di potere, si bramano grandi giacimenti di gas naturale. Con quali occhi poter guardare ancora al Mediterraneo? Con l’ostinazione di voler vedere giovani che si mescolano, si abbracciano, si scoprono uguali tra una sponda e l’altra? Oppure è una invalicabile barriera, una faglia che spezza ogni legame tra l’Europa e i Paesi arabi? Con il sangue in Palestina a chiudere una terribile scenografia.
Vi racconto la storia di tre luoghi. Vi racconto della presenza di Maria su colline che si alzano direttamente dal mare. I suoi occhi imploranti, le braccia aperte a pregare per una tregua mediterranea.
Una teleferica. Si impenna fino a 650 metri. Venti chilometri da Beirut. Libano, la «terra dove sorge l’alba», una terra stretta. Maria ha le braccia spalancate verso il mare. Sulla costa, là in fondo, la linea affollata degli edifici, la cittadina di Jounieh. «Quasi cedrus exaltata sum in Libano», la Vergine racconta: «Sono stata elevata come un cedro in Libano», ha la forza e la bellezza degli alberi delle montagne libanesi. Una statua maestosa, bianchissima, una pittura che ricopre il bronzo con il quale è stata modellata, alta più di otto metri. Santuario di Harissa. Agli inizi di dicembre vi è salito papa Leone XIV. In Libano convivono diciotto comunità religiose. Un equilibrio fragile, possibile, precario. Capace di resilienza. Capace di vendette. Il santuario di Nostra Signora del Libano è sfuggito alle violenze ricorrenti in queste terre. Nessuno tocca Maria. Fu il patriarca di Antiochia, Elias Boutros Hoayek, vescovo maronita, a volere, nel 1904, cinquantesimo anniversario del dogma dell’Immacolata, la costruzione di un santuario mariano su questa montagna marina, a volervi innalzare una grande statua della Madonna, visibile da ogni orizzonte. Il suo santuario venne inaugurato nel 1908, a lei si rivolsero, fin da subito, non solo i cristiani, ma anche i musulmani, sciiti e sunniti, i drusi. Montagna strategica per i cristiani: attorno al santuario si trova il patriarcato maronita, la nunziatura apostolica, il convento dei melkiti, dei francescani, i patriarcati siro-cattolico e quello armeno. Tutti i cristiani vogliono essere vicini a Maria.
Leggenda per leggenda. IV secolo dopo Cristo, la flotta dell’imperatore romano Teodosio era in navigazione lungo le coste libanesi. Le navi vennero sorprese da una tempesta. Un marinaio cristiano chiese l’aiuto divino e scorse una luce proveniente da una montagna. La bufera si calmò, quella piccola flotta venne guidata verso un riparo. Teodosio, il sovrano che dichiarò il cristianesimo come unica religione del suo regno, ordinò la costruzione di un monastero su quella collina. La fede cristiana, nei secoli, non rimase unica, Maria, di fronte al mare, accoglie i fedeli di ogni religione.
Splende d’oro, invece, la statua di Notre Dame de la Garde. 40mila foglie dorate hanno ricoperto, dopo un complesso restauro, la statua di bronzo che si alza, per oltre undici metri, sul campanile della basilica neobizantina: è la «Buona Madre», simbolo irrinunciabile e popolare di Marsiglia. Anche lei spinge il suo sguardo sull’orizzonte del mare. Lei, la statua, prolunga, con coraggio, l’audacia del campanile di oltre undici metri. E scintilla, come una stella, sopra il Mediterraneo. Vuole proteggere i marinai e i pescatori. Che si sono sempre opposti ai progetti di costruzione di grandi palazzi che avrebbero impedito ai loro sguardi di vedere Maria. Una lotta sempre vittoriosa, i marsigliesi hanno a cuore Notre Dame de la Garde. Il vescovo Eugène de Mazenod, fondatore della congregazione degli Oblati di Maria Immacolata, incaricò, nel 1853, un architetto protestante, Henri Jacques Esperendieu, della costruzione della basilica. Venne inaugurata nel 1864. Leggenda per leggenda: la prima cappella su quella collina venne costruita dopo che, nel 1219, Maria apparve a due pescatori che stavano rischiando il naufragio durante una tempesta. Maria cercò di calmare il mare e di indicare ai due una rotta verso la salvezza.
Dall’altra parte del mare. Un’altra collina alta sul mare, un’altra teleferica per raggiungere un’altra Maria mediterranea. Ai suoi piedi c’è Algeri. Pochi giorni prima dell’ultimo Natale, una corale polifonica, il coro Nagham, ha cantato davanti al grande abside della basilica di Notre Dame d’Afrique. In chiesa giovani e anziani, cristiani e musulmani. Alle spalle dei coristi, sul cerchio della cupola, vi è, scritta a grandi caratteri, una invocazione alla Vergine: «Priez pour nous et pour le musulmans».
Questa volta Maria non ha una grande statua: è una Madonna Nera, piccola, indossa una sontuosa veste di Tlemcen, città dell’Ovest algerino celebre per i suoi tessuti. Fu donata, nel 1840, durante una visita in Francia, ad Antoine Adolphe Dupuch, primo vescovo di Algeri. Rimase in un monastero trappista fino a quando non fu pronto il nuovo santuario dedicato a Maria. Fu il successore di Dupuch, Antoine Agustine Pavy, ad annunciarne la costruzione durante un’omelia dedicata al dogma dell’Immacolata Concezione, appena dichiarato da papa Pio IX nel 1854. Pavy non vide la chiesa ultimata: morì sei anni prima della conclusione dei lavori, ma il suo sogno, realizzare un luogo di pellegrinaggio, divenne realtà nel 1872. L’anno dopo, la piccola statua venne trasportata nella nuova basilica: le cronache raccontano che cristiani, musulmani ed ebrei parteciparono alla grande processione.
Anche qui vi è una leggenda, un altro racconto: la basilica sarebbe sorta per una richiesta di due umili operaie di Lione, che avevano seguito il vescovo in Africa. Pregavano ogni giorno su questa collina marina e ben presto molte altre donne si unirono a loro. Fino a quando monsignor Pavy non si convinse della necessità di una chiesa per queste fedeli. Notre Dame d’Afrique attraversa tutta la storia del ‘900 algerino. Il duro colonialismo francese, la guerra di liberazione, i primi anni di libertà del Paese, il decennio di sangue della guerra civile. L’assemblea nazionale algerina ha appena dichiarato la colonizzazione di Parigi «un crimine di guerra».
Questa basilica, apparentemente indifesa, esposta ai venti marini, è stata capace di rimanere, in mezzo a questi inferni, un luogo di convivenza tra fedeli diversi. Nessuno, anche qui, nemmeno negli anni più brutti, ha toccato la Vergine. Le donne musulmane salgono al santuario e accendono candele a Maria. Chiedono grazie. E quando vengono ascoltate, tornano e ricompensano la Vergine con piccoli doni. Ben si capisce, Maria appare nel Corano. Anzi, il libro sacro dell’Islam ne cita il nome trentaquattro volte. Il santuario di Algeri è una zona dove le religioni si sfiorano, si riconoscono, si osservano. Il vescovo Leynaud racconta che un giorno, gennaio del 1923, incontra una giovane donna musulmana inginocchiata davanti a Maria. Interrogata dal prelato, spiega: «Sono qui per pregare Meriem perché mi aiuti a trovare un marito sobrio, serio e laborioso». Oggi, leggo, si calcola che siano almeno centomila i visitatori del santuario. E solo una piccola percentuale sono cristiani.
Non ha una conclusione questo viaggio mediterraneo. Da tre punti cardinali, da tre terre, Europa, Medioriente, Africa, gli occhi di Maria non perdono di vista il mare mentre ascolta provenire dalle città della costa la preghiera di un muezzin e il suono delle campane. Nel 2026, la mia città, Matera, e una città del Marocco, Tetouan, saranno capitali della cultura e del dialogo tra le due sponde del Mediterraneo. Io spero che da questi luoghi, tre grandi santuari, due piccole città, possa nascere una forza capace di abbattere muri, mescolare differenze, capirne la ricchezza. Per navigare tra le onde del nostro tempo.
Buon anno.
(Alcune delle notizie relative a Notre Dame d’Afrique sono tratte da un saggio di un antropologo italiano, Dionigi Albera: La Signora d’Africa: anatomia di un santuario mariano in terra d’Islam, apparso sul sito Hal, prezioso luogo di condivisione dei saperi, https://amu.hal.science/hal-01791227/document)
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