Sull’onda di Hokusai
Sabato pomeriggio al centro commerciale. Il negozio di una nota catena di fast fashion pullula di adolescenti. Un ragazzo esce dal camerino e si avvia a lunghi passi verso la cassa. Stringe tra le mani una t-shirt azzurra. Mentre attende il suo turno per pagare, apre la maglia e ammira la stampa bianca che ricopre tutto il retro del capo. L’acquirente sfiora col dito le centinaia di particelle di schiuma in cui si scompone quella grande onda protagonista del disegno. Poi ripiega alla meno peggio l’indumento e fa scivolare fuori dalla tasca dei jeans il portafogli. Chissà se pagando quei modici 17,99 euro (questo il prezzo della t-shirt) il nostro amico si è accorto di acquistare un pezzo di storia dell’arte. Sì, perché l’onda in questione, in effetti, è stata «presa in prestito» da una silografia policroma di Katsushika Hokusai datata 1830 circa.
Il nome non vi dice nulla? Di sicuro l’immagine lo farà… specie considerato che ormai da quasi due secoli La (grande) onda presso la costa di Kanagawa (dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji) ispira generazioni di artisti d’ogni sorta ed è entrata di fatto – grazie anche al contributo di design e pubblicità – nel nostro immaginario collettivo e nella nostra quotidianità. Se con questa premessa vi siete incuriositi e volete saperne di più, trovate la soluzione a Pisa, dove, fino al 23 febbraio, Palazzo Blu ospita la mostra «Hokusai». Curata dalla storica dell’arte Rossella Menegazzo, l’esposizione ricostruisce i 70 anni di attività del pittore e incisore giapponese (1760-1849) maestro indiscusso dell’ukiyo-e (genere di stampa artistica giapponese, impressa su carta con matrici di legno, nata e sviluppatasi durante il periodo Edo), indagando anche le influenze che la sua opera ha esercitato sull’arte orientale e su quella europea di inizio Novecento.
Ma, come spesso accade, per capire l’opera di un maestro dobbiamo prima conoscere l’ambiente in cui essa nasce e si sviluppa. Ecco perché è importante partire dal significato del termine ukiyo-e (tradotto dal giapponese: «immagini dal mondo fluttuante»). Il cosiddetto «mondo fluttuante» altro non è che quel contesto di novità e fermento socio-economico-culturale che invade il Giappone dal 1603 al 1868 (epoca Edo, altresì conosciuta come shogunato di Tokugawa), un lungo periodo di pace e prosperità legato alla crescente urbanizzazione del Paese e alla nascita di una nuova classe mercantile e artigianale paragonabile alla borghesia europea dello stesso periodo. È in questo ambiente fatto di locande, ristoranti, stazioni di posta, teatri, negozi, bancarelle, mode, abiti e accessori, che vengono alla luce illustrazioni di opere letterarie e cartelloni per il teatro, raffigurazioni su fogli singoli e produzioni indipendenti che raccontano vita, usi e costumi della città di Edo (l’attuale Tokyo), oltre a raffinati libri illustrati, inviti e biglietti augurali.
Alla base dell’ukiyo vi è il piacere di godersi la vita con leggerezza. Non a caso, la prima definizione del termine, tratta dalla prefazione dei Racconti del mondo fluttuante (1661) dello scrittore Asai Ryoi, recita così: «Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua: questo, io chiamo ukiyo». Un vero e proprio stile di vita, insomma, quello che permea le oltre duecento opere esposte a Palazzo Blu, provenienti dal Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova, dal Museo d’Arte Orientale di Venezia e da collezioni private italiane e giapponesi. Sono capolavori firmati da Hokusai e da alcuni suoi allievi (Hokkei, Hokuba, Ryuryukyo), compresa la figlia Oi, che lavorò al fianco del padre e raccolse il suo lascito. Senza scordare i quattro artisti contemporanei chiamati a rappresentare a Pisa un «nuovo giapponismo» che proprio dal maestro dell’onda ha tratto linfa vitale.
C’era una volta il Giappone…
Qual è la prima cosa che vi viene in mente pensando al Giappone? Al di là del sole rosso che spicca sulla bandiera nazionale, la maggior parte di voi probabilmente risponderà: il monte Fuji. Più che un luogo, un simbolo, ritratto e fotografato nel corso dei secoli in migliaia di modi diversi. Tra questi, si è guadagnato un posto d’onore la silografia policroma (nishikie) realizzata da Hokusai tra il 1830 e il 1832 (Giornata limpida con vento del sud - Fuji Rosso) per la serie Trentasei vedute del monte Fuji. Un’opera di rara precisione e vividezza che trasporta l’osservatore in una dimensione parallela, sospesa tra le nuvole a pecorelle dello sfondo e il celebre cono rosso mattone che svetta in primo piano. Nonostante sia fatta in serie, l’opera che oggi possiamo ammirare a Palazzo Blu conserva gradazioni uniche. Merito del bokashi, tecnica di stampa che permetteva di realizzare sfumature cromatiche con effetti simili alla pittura, per un risultato «democratico» ed esclusivo nel contempo. «Si trattava – scrive Rossella Menegazzo nel catalogo della mostra – di opere elaborate in équipe, stampate in tirature di decine o centinaia di esemplari con matrici in legno incise da un professionista sulla base del disegno dell’artista, una per ciascun colore da applicare, e inchiostrate da uno stampatore che con la propria competenza, come ciascuna figura coinvolta nel processo, imprimeva più o meno energicamente il colore facendo aderire il foglio sulla matrice. Il risultato era, dunque, la fusione di diverse professioni sotto la direzione di un editore e la qualità della stampa dipendeva sì dall’abilità del disegno preparatorio di maestri come Hokusai [...], ma anche dalla precisione dell’incisione sul legno del segno pittorico dell’artista [...] e dalla stesura del colore sulla matrice».
Parte proprio da manufatti figli di questa arte di équipe l’esposizione a Palazzo Blu. Otto le sezioni in mostra: vedute celebri del Giappone, vedute del monte Fuji, manga e manuali, rappresentazione di poeti e poesie, surimono: biglietti e inviti, la libertà di dipingere, Hokusai e il giapponismo, Hokusai pop. Non solo, dunque, la produzione di massa più nota del maestro giapponese (silografie raffiguranti luoghi celebri, meisho), ma anche libri illustrati (ehon) che documentano le prime vie interne di collegamento in Giappone e manuali di disegno per pittori aspiranti o professionisti.
Fiore all’occhiello della rassegna: alcune opere che documentano la produzione più raffinata di Hokusai, legata al mondo letterario e poetico. Si va dalle silografie tratte dalle serie Specchio dei poeti giapponesi e cinesi e Cento poesie per cento poeti in Racconti illustrati della balia, fino ai surimono (raffinati biglietti augurali, d’invito o pubblicitari) fino ai rotoli dipinti a mano (kakejiku). Opere uniche per eccellenza, queste ultime racchiudono tutto il pensiero religioso e scaramantico di Hokusai. Tra animali leggendari e portafortuna come galli e draghi, poeti, divinità e belle donne, il maestro racconta un mondo fatto di eleganza e tradizione (da non perdere la Tigre fra i bambù che guarda la luna piena, 1818 circa, rotolo verticale, inchiostro e colori su tela, e il Trio di suonatrici di kokyu, koto e shamisen, 1818-1830, rotolo verticale, inchiostro e colore su carta). Un mondo che per oltre due secoli – il periodo Edo appunto – resta perlopiù isolato e che soltanto dalla seconda metà dell’800 (quando il commodoro americano Perry decide di forzare l’apertura dei porti giapponesi) si schiude all’Occidente, innescando una reciproca compenetrazione di stili e motivi. Per trovare tracce del cosiddetto «giapponismo» nelle correnti artistiche europee di fine ’800 e inizi ’900 (dall’impressionismo al post impressionismo, passando anche per l’espressionismo) basta ammirare le opere di Henri de Toulouse Lautrec, Vincent Van Gogh e Matisse. L’influenza dell’arte giapponese, tuttavia, non si fermerà al XX secolo.
La mostra a Palazzo Blu dedica l’ultima sezione alle nuove leve che – dall’arte pop a quella digitale – hanno fatto tesoro della lezione di Hokusai. Il risultato è la monumentale onda-tsunami (Foretoken) dipinta con penna e inchiostro acrilico nel 2008 da Manabu Ikeda. Per non parlare delle illustrazioni di Yoshitomo Nara, ispirate alle vedute del monte Fuji. Completano la mostra di Pisa l’opera digitale su sei canali in loop continuo Memory waves del collettivo teamLab (2024) e la tempera su tela Il grande sogno di Simone Legno (2024), alias ideatore di Luce, la mascotte del Giubileo 2025.
L’arte genera arte. E questo Hokusai lo sapeva bene. «Dall’età di 6 anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e dai 50 pubblico spesso disegni, tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A 73 ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a 86 progredirò oltre; a 90 ne avrò approfondito ancor di più il senso recondito e a 100 anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò 110, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Se posso esprimere un desiderio – scriveva profeticamente il maestro nel primo volume delle Cento vedute del monte Fuji pubblicato nel 1834 –, prego quelli tra loro signori che godranno di lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato». Oggi, a distanza di secoli, possiamo confermare che il maestro non si sbagliava!
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