Fratelli in città
«Il Signore ha scelto Sion, l’ha voluta come sua dimora» (Sal 132,13). Sion è Gerusalemme, città tre volte santa. Santa per gli ebrei, Davide la espugnò dai Gebusei e ne fece la capitale del suo regno. Salomone vi costruì il tempio, dimora dell’Arca dell’alleanza e quindi di Dio. Santa per i cristiani, dopo la morte e risurrezione di Gesù, luogo in cui le Scritture si sono compiute. E poi, con Maometto, diventa città santa per l’islam, il punto di incontro tra il cielo e la terra, luogo da cui il Profeta inizia l’ascesa ad Allah. Gerusalemme è promessa e desiderio che si avvera. Eppure non c’è pace nella città di Dio. Come nelle nostre città. Luoghi verso i quali l’umanità confluisce con determinazione, in un movimento che non conosce una vera controtendenza, come a volte si legge in qualche bell’articolo di giornale che parla di fuga dalle città verso la montagna o la campagna.
L’umanità continua ad andare in città perché la città offre più opportunità. Di riparo dalle calamità, di lavoro, fosse pure negli interstizi, spesso indecenti, delle smisurate ricchezze che pochi accumulano in modo scellerato. Si chiama inurbamento. L’Onu calcola che nel 2030 saranno 5,2 miliardi di persone ad abitare in città, sul totale di 8 miliardi di popolazione mondiale. L’incremento è di 180 mila persone ogni giorno. È chiaro che il concetto di città è relativo. La nostra Gubbio, «città di pietra», ha 30 mila abitanti, Kouvola, in Finlandia, ne ha 81 mila, Barcellona ne conta 5 milioni, Shanghai 41. Nel Sud del mondo ci sono città che hanno partorito città, costruite con i loro scarti, dove vivono milioni di senza speranza.
Che cosa fa di una città la città di Dio e di un’altra l’inferno in terra? La Bibbia conosce bene il rischio delle città incubo. Nella Genesi gli uomini decidono di costruire una città e una torre «la cui cima tocchi il cielo» e lo motivano così: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gen 11,4). È una motivazione di una modernità sorprendente. È il mito dell’identità, idolo umano tutto solo umano su cui poggiare la propria sicurezza, senza Dio, contro Dio. Pensando cioè che costruire, costruire, costruire sia sufficiente a vincere la paura. Noi forti, contro tutti. Così, presi dal nostro progetto individuale di essere Dio, non troviamo più la parola per comunicare. È la città-Babele. Inferno è non capirsi più. Non vedersi più come simili.
Chi viaggia spesso e torna nelle stesse città, vede bene tutti e due questi fenomeni. Da un lato i poveri che cercano opportunità in città sono sempre di più, tanti quanti mai ne avevamo avuti intorno, e dall’altro si vive come se non ci fossero. Semmai con un fastidio aggiuntivo, che ci orienta quando è tempo di elezioni. E infatti, c’è chi vince promettendo più decoro. Cioè nascondendo, allontanando. I poveri. Ma su questo punto non sono possibili interpretazioni: spostare i poveri per ragioni di decoro è il rovescio della nostra fede, da qualsiasi parte si guardi la cosa. «I poveri li avete sempre con voi», dice Gesù (Mc 14,7). Ovvero i poveri annunciano la buona notizia che c’è una strada per essere migliori, proprio loro ci riconducono al cuore del Vangelo e della nostra umanità.
E allora, che cosa rende la città un’immagine del Regno, che cosa la fa diventare Sion città di Dio? La Bibbia ha pagine bellissime sulla grazia di vivere in città, bellissime e semplici: «Ecco quanto è buono e soave / che i fratelli vivano insieme! / È come rugiada dell’Ermon / che scende sui monti di Sion. / Là il Signore dona la benedizione, / e la vita per sempre» (Sal 133,1.3). È la fratellanza, è questo.
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