Amati, a prescindere
Qual è il nostro valore? Dipende. Quando una persona muore in un incidente stradale o sul lavoro oppure in ospedale e viene riconosciuta l’esistenza di un comportamento colpevole, il suo valore viene calcolato sulla base di criteri affilati nel tempo dentro le aule dei tribunali. L’età, la professione, il numero di parenti più o meno prossimi, i figli, l’essere sostegno di genitori più o meno anziani e così via. Può sembrare una contabilità senza anima ma è l’umanissimo tentativo di essere giusti, per quanto possibile qui sulla terra, dentro un mondo che misura con i numeri anche le relazioni affettive e forse un giorno si troverà un metodo migliore, tutta la migliore storia dell’umanità è un progressivo correggere le proprie convinzioni.
Però quando noi diciamo di qualcuno che «è una persona di valore», abbiamo in mente qualcosa di molto diverso. Vogliamo dire che è una persona affidabile, è un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, intendiamo che la sua esistenza migliora la vita di chi è in relazione con lei, in modo diretto se la si conosce, o indiretto se è una persona che ha responsabilità pubbliche, politiche, sociali o ecclesiali. In tutti questi casi noi comunque ci riferiamo a ciò che quella persona è diventata, al punto in cui si trova in un momento della sua vita. Esprimiamo un giudizio su una storia già scritta.
Nei Vangeli non si parla molto di valore. La parola la troviamo pochissime volte. Ad esempio, nel senso di valore economico nella parabola della perla preziosa (Mt 13,46) e a proposito del profumo di nardo nell’incontro di Betània (Mc 14,3) e poi nel senso di essere preziosi al cuore di Dio nelle quattro ricorrenze (Mt 6,26 e 10,31 e Lc 12,7 e 12,24) in cui Gesù rassicura i discepoli attraverso l’immagine degli uccelli nel cielo, leggerissimi e pieni di grazia: voi valete assai più di loro, dice. E qui c’è un passaggio bellissimo che forse, per il fatto di aver sentito tante volte queste parole, scivola via nella nostra comprensione.
In Luca il paragone si allarga ai gigli del campo che non faticano e non filano eppure nemmeno Salomone poteva raggiungere tanta grazia. E conclude: «Se dunque Dio veste così bene l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede» (12,28). Sono parole che non possono proprio essere interpretate in modo devoto e moralistico (cioè il dovere di essere grati per i doni di Dio). Semplicemente si tratta di riconoscere che Dio fa per noi a prescindere da tutto, non perché abbiamo raggiunto un discreto e migliorabile grado di fede e rettitudine nelle azioni, e nemmeno perché promettiamo bene per il futuro. Dio fa per noi perché siamo partecipi della sua vita divina, pieni di valore in quanto amati da lui, comunque, sempre, anche se siamo e restiamo di poca fede.
La fede è un mistero profondo che arriva fin sulla Croce. Dei due ladroni, uno sì e l’altro no riconosce che Gesù muore per loro e non sappiamo perché, davvero non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che agli occhi di Dio abbiamo valore quale che sia il nostro passato e anche se non c’è un futuro in cui essere grati. Qui sulla terra nemmeno quello che la tradizione chiama buon ladrone aveva un futuro in cui essere grato e mettere in atto azioni riparative. È un immenso abbraccio, un amore così, e chi ha avuto la fortuna di lavorare nella scuola sa quanto è generativo un credito di fiducia e affetto nei ragazzi. Quando il Vangelo ci dice che dobbiamo perdere noi stessi è possibile che voglia dire (anche) di abbandonare l’ossessione per il valore e accettare semplicemente l’amore.
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