Maschere e menzogne
Quando nella Bibbia incontriamo storie che potremmo chiamare di «smascheramento», siamo contenti. Si muove dentro di noi un senso di giustizia e respiriamo di piacere e sollievo. Fin da Genesi 4, quando il Signore smaschera Caino e la tremenda bugia sul fratello, all’episodio drammaturgicamente impeccabile di 2 Samuele 12 in cui, in un crescendo durissimo e tragico, il profeta Natan mette re Davide di fronte al suo doppio tradimento verso il generale Uria l’Hittita, che ha mandato a morire per nascondere il peccato di aver sedotto la moglie. E poi c’è Gesù nei Vangeli. In Matteo 23 lo smascheramento dettagliato degli scribi e farisei, i quali impongono fardelli pesanti che scansano da se stessi, fanno opere buone solo per essere ammirati, cercano posti d’onore e si fanno chiamare rabbì: guai a loro, razza di vipere, come potranno scampare dalla Geenna?
Ma ci sono smascheramenti più malinconici, come quello che racconta Marco 10, dell’uomo ricco che sinceramente pensa di far bene nella sua vita, anche se in fondo un dubbio deve averlo, visto che interroga Gesù, e si rattrista e infine se ne va afflitto quando Gesù lo tocca là dove il suo cuore non è ancora libero: le sue ricchezze. Si tratta di personaggi molto diversi tra loro. Gli scribi e i farisei costituivano un gruppo di potere e di sicuro un bel po’ di persone intorno a loro sapevano che erano falsi. Come anche noi sappiamo benissimo chi è falso o abbastanza falso tra i nostri politici, opinionisti, uomini di Chiesa, potenti. Certo, qualche seduttore inganna davvero, ma non sono tanti a essere così bravi.
Ma re Davide non era un falso profeta. Era un vero re, legittimo, scelto dal Signore e unto per mano del profeta Samuele. Era l’ultimo e più giovane tra i figli di Iesse, nemmeno presente alla scelta nel momento giusto, richiamato dal pascolo dove guardava le pecore. Venuto quindi da una posizione umile che gli avrebbe potuto dare quello sguardo dal basso (l’espressione bellissima è del teologo Dietrich Bonhoeffer) capace di aiutarlo a preservarsi dall’ingiustizia. Eppure proprio lui ha bisogno di essere smascherato. Lo stesso sarà per Pietro, impetuoso discepolo della primissima ora, che mai e poi mai avrebbe pensato di essere capace di rinnegare Gesù, e anche qui lo smascheramento è dolorosissimo.
La maschera è comoda, aiuta a risparmiarci la fatica di riconoscere in noi stessi, ogni giorno, i sentimenti sempre diversi che le persone intorno a noi ci suscitano. È fissa, ci dà coerenza. Rassicura chi ci sta intorno. Lei è cinica. Lui è superficiale. Lei è una tosta. Lui uno che bada a se stesso. Stiamo al gioco delle bugie per molti motivi. Ad esempio, perché ricaviamo i nostri vantaggi. Smascherare è faticoso, può suscitare opposizione. Oppure, semplicemente, è bello sentirsi migliori di chi sappiamo essere imbroglione, falso e fedifrago. È un veleno. Facciamo tutti finta, come nella favola del re nudo. E naturalmente anch’io nel tempo prendo la mia maschera, magari per niente malvagia, solo poco poco indifferente, distante, indolente, distratta. Niente di che. Ma non va bene. Intanto la menzogna avanza e tutto si corrompe.
Tra gli smascheramenti più radicali del Vangelo, c’è quello di Giovanni 8, l’adultera. Tutti pronti a fare la parte che la maschera assunta sta dettando loro, le pietre in mano, la morte vicina. E Gesù che gioca con la sabbia e smaschera tutti. Se davvero siete migliori di lei, allora d’accordo, lanciate la pietra. Ma nessuno che si erge a giudice feroce sa di essere davvero davvero migliore. E se ne vanno uno a uno. Tutti vivi, forse con pensieri nuovi. Definitivo, direbbe un ragazzo, oggi.
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