Piccolo trattato di consolazione
Oggi della morte sembra sia proibito parlare; ma è inevitabile che essa prima o poi si affacci al nostro orizzonte. Questo testo ci propone uno sguardo particolare sulla realtà della morte, vista dalla prospettiva dell’autrice francese, che è rabbino a Parigi. Già dall’inizio si entra nel vivo del tema, attraverso il racconto di alcune storie di vita e lutti che ha conosciuto e accompagnato; in diverse occasioni (tra cui il funerale di Simone Veil) viene chiamata a recitare il qaddish, la preghiera per i defunti, e altre volte a tenere un’eulogia funebre. Il cuore del suo lavoro è quello di trovare le parole e i gesti «per reagire all’apparizione della morte», dando, a chi ascolta la storia del defunto, delle chiavi per interpretare la propria: infatti, «i riti del lutto esistono per accompagnare i morti, ma ancor di più per accompagnare quelli che restano».
In tutto questo rimane fedele alla complessità dell’esistenza, attingendo a piene mani dal patrimonio della cultura ebraica. Anzitutto parte dalla lingua: l’ebraico, che, con la sua estrema concretezza, arriva a chiamare il cimitero, in modo paradossale, beit ha-chayim, ovvero «casa dei vivi», quasi ad affermare che la morte non ha la vittoria neanche qui. In secondo luogo, inserisce continui riferimenti alla Torah e ai racconti della tradizione ebraica, spesso segnati da una forte carica umoristica, a volte quasi irriverente, come nel dialogo tra Dio e Mosè riguardo alla fine di quest’ultimo. Sono molte le esperienze personali dell’autrice in relazione alla morte (come l’assassinio di Rabin, la visita alla tomba dello «zio» Edgar, l’incontro con una donna appassionata del proprio funerale), ma rimane la difficoltà a trovare le parole di fronte a questa realtà: «Per l’ebraismo, l’ineffabilità è proprio la cifra che racconta la morte».