Satriano di Lucania, dove gli alberi camminano
Allora nevicava e il paese, duemila abitanti, è nelle montagne lucane. Al centro della Valle del Melandro, trenta chilometri da Potenza. Nevicava per davvero, oggi non ci siamo più abituati. Allora il rumît, l’uomo-albero era davvero un eremita, era quasi solo. Sperduto. Era il contadino che non aveva avuto nemmeno la forza di emigrare e vagava in cerca di cibo e conforto. Nemmeno gli antropologi più seri, instancabili esploratori della Basilicata del dopoguerra (Ernesto De Martino, Diego Carpitella), si erano spinti fino a Satriano: il rumît poteva stare tranquillo, vivere la sua solitudine, uscire dal bosco una volta l’anno, preannunciare la prossima fine dell’inverno, chiedere un dono e ritornare nella grotta nella quale si immaginava vivesse.
Faceva molto freddo, quell’anno. E la neve era abbondante. Non avrei dovuto seguire il ragazzo che andava nel bosco a raccogliere quanto era necessario per le vesti del rumît. Non avrei dovuto sapere. L’eremita era (ed è) uno spirito. Non aveva un corpo. Andammo in cerca dell’edera, che cresce abbondante nelle foreste di Satriano. I tralci delle piante (verdissimi, nel bianco della neve) vengono legati tra di loro e indossati come un manto a nascondere l’eremita invisibile fino alle caviglie. In realtà, se lo credete, non vi è nessuno sotto lo stretto covone di edera.
Il rumît impugna il fruscio, un lungo bastone dal quale spuntano ciuffi acuminati di pungitopo. È una maschera silente, muscia, muta. Raccontano che non chieda, non pretenda, ma, certamente, si aspetta una ricompensa. Un tempo era davvero solitario, spontaneo, dicevano al paese: vagava da solo per le strade e «frusciava» alle porte. Una creatura mite, dal passo lento, un po’ strascicato. A volte incerto nella direzione del suo cammino. Veniva a donare una speranza, ad avvertire, nel momento più duro dell’anno, che, forse, già si intravedevano i primi segni di una stagione migliore.
Nella sfilata della domenica, il rumît si trova in compagnia di altre maschere: le «Quaresime» dal volto bianco e le labbra rosse (la loro smorfia ricorda un joker) che piangono la fine del Carnevale; gli «Orsi», dalla folta e calda pelle, raffigurano l’emigrato che torna alla propria terra con la sua fortuna e si fa beffe del contadino rimasto al paese. E poi la «Zita», il matrimonio in cui maschi e femmine si invertono i ruoli in un perenne gioco di camuffamenti.
E poi accade che un gruppo di ragazzi del paese, nati attorno agli anni ’80, capisca, grazie anche al lavoro del regista Michelangelo Frammartino, innamorato di questo rito, che la storia del rumît è davvero importante. Vogliono farne parte, diventarne protagonisti, vogliono raccogliere l’eredità della loro gente. É la contemporaneità che irrompe in una tradizione. Usano il web, si ritrovano, si raggruppano ovunque la vita li abbia portati, intuiscono che possono dare una nuova anima all’antica maschera. Nel 2014, il rumît non è già più solo. Quell’anno, nella sua discesa dal bosco verso il paese, si trova con altri cento compagni. Anzi, in 131, quanti sono i comuni della Basilicata. Festa di identità. Chi arriva a Satriano, in questo inverno senza neve, verrà invitato a rendersi conto di quanto sta accadendo alla Terra e, se vuole, può, a sua volta, diventare uomo-albero.
Il rumît, nel Carnevale di oggi, è un messaggero. Non è più una raffigurazione di tempi di emigrazione e solitudine. La maschera invita a guardarsi attorno, a camminare nel bosco, ad aver un rapporto profondo con la Natura, a ristabilire una relazione feconda con la Terra.
Se siete attorno alla Basilicata, il 10 e 11 febbraio, andate a Satriano di Lucania. Vedrete una foresta che cammina.
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