Alberto Manzi, il maestro disobbediente
In un momento storico in cui le buone esperienze educative languono, non solo a livello scolastico, e in cui l’educazione stessa non appare come uno degli interessi prevalenti dell’opinione pubblica, fioccano gli anniversari delle nostre grandi figure pedagogiche del passato. Dopo Gianni Rodari, don Milani, Mario Lodi e Danilo Dolci, è il turno del maestro Alberto Manzi di cui ricorre il centenario della nascita. Manzi divenne famosissimo per un evento che, dal 1960 al 1968, catalizzò l’interesse del nascente pubblico televisivo italiano: il programma Non è mai troppo tardi. Una geniale intuizione della nuova tv nazionale per offrire agli italiani analfabeti una possibilità facile e abbordabile per imparare a leggere, scrivere e far di conto. Ebbe un successo strepitoso: si stima che circa un milione e cinquecento mila cittadini uscirono dall’analfabetismo.
I dirigenti RAI avevano la necessità di scegliere una figura adatta e chiesero al ministero della Pubblica Istruzione di creare una selezione tra i maestri, che erano in numero decisamente significativo, e le maestre. La scelta non fu difficile: tra tanti spiccava la figura di Alberto Manzi, esperto insegnante di 36 anni. Come scrittore per l’infanzia, aveva già collezionato premi con libri ormai considerati classici della letteratura infantile: El loco, La luna nelle baracche, Grogh, storia di un castoro, ma soprattutto Orzowei che divenne, negli anni Settanta, una serie di grande successo della tv per ragazzi.
Manzi era un maestro senza un’appartenenza pedagogica specifica, ma con una sensibilità straordinaria nei confronti dei bambini e delle bambine e del loro mondo. La sua era una vocazione totale consolidatasi nel carcere minorile «Aristide Gabelli» di Roma, dove si fece le ossa con ragazzi difficili. Non aveva paura ad affrontare il rischio e le sfide educative, piuttosto un grande amore per i suoi alunni e per il suo lavoro. Creò una didattica vivace, attiva, senza fronzoli ma con tanto rispetto per la curiosità dei suoi alunni. Proprio per questo, e non solo, Alberto Manzi entra di diritto nel pantheon delle grandi figure educative del secondo Novecento. Un’epoca davvero creativa e intensa per la scuola italiana, quando si chiusero le classi differenziali, i genitori entrarono nelle aule e si vissero stagioni entusiasmanti.
Di Manzi va ricordato, nel 1981, anche il famoso episodio in cui fu sospeso per tre mesi in quanto si era rifiutato di dare i giudizi sulla pagella sostituendoli con la formula Fa quel che può, quel che non può non fa, usando un timbro per riportare queste parole sulla scheda di valutazione. All’osservazione dell’ispettore che un timbro sembrava inopportuno, Manzi, a cui non mancavano né fantasia né creatività, riparò immediatamente scrivendo la stessa frase a biro. La sospensione arrivò inderogabile, nonostante la sua fama e la sua popolarità. Una figura anticonformista che ci riporta all’epoca dell’utopia televisiva, quando ancora tanti intellettuali, in primis Umberto Eco, avevano sperato che questo mezzo potesse essere uno strumento per generare un linguaggio e una cultura comuni. In realtà, la storia è andata diversamente e l’unica unificazione creata dalla televisione è stata quella consumistica.
Lo spirito del suo stile educativo è ben sintetizzato nelle parole che lasciò ai suoi alunni nel 1976, nel momento di separarsi da loro: «Spero che abbiate capito quel che ho cercato sempre di farvi comprendere: non rinunciate mai, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, ad essere voi stessi. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o “addomesticare” come vorrebbe». (Lettera del maestro Manzi ai suoi alunni di V elementare, 1976)
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