Ho paura di perdere
Durante un colloquio di accompagnamento di una donna che ha perso il marito ancora giovane, mi ha toccato profondamente la sua paura più profonda di adesso: «Vivo nell’ansia costante di perdere anche i miei figli, sono sempre in apprensione, mi rendo conto di tarpare le loro ali con le mie paure, ma non riesco a liberarmi da questi pensieri angoscianti». La paura di perdere le persone che amiamo e che ci danno sicurezza ce la portiamo dall’infanzia e ci accompagna per tutta la vita. Un uomo intelligente e sensibile, che per più di quarant’anni ha fatto il chirurgo, lottando per strappare vita alla morte, mi confidava: «Se perdessi mia moglie mi perderei; non potrei più vivere!». Sì, ci si può perdere nella paura di perdere. Ed è difficile per noi esseri umani imparare quella libertà interiore che ci permette di amare senza voler possedere, di legarsi senza avvinghiarsi, di appoggiarsi senza parassitare l’altro. È difficile imparare a lasciare le cose, prima che le cose lascino noi.
L’insegnamento più saggio che ci ha lasciato il Buddha nelle Quattro Nobili Verità è che la fonte della sofferenza mentale deriva dall’attaccamento, dalla bramosia, dal desiderio non orientato. San Francesco si è spogliato di tutto per essere libero di amare tutto, per volare leggero come le allodole nel cielo. Ci si può spogliare di quello che si è e di quello che si ha solo per qualcosa di più grande, per qualcosa che colma davvero il desiderio del cuore. Perché ciò che vuoi possedere e che non riesci a donare alla fine ti possiede e tarpa il cuore alla libertà più grande: amare fino a donare se stessi e la propria vita. Mi sopraggiunge alla mente un apoftegma, cioè un detto, dei Padri del Deserto, che mi ha accompagna da tanti anni: «Un giovane monaco domandava a un anziano: “Perché mi invade la paura quando vado nel deserto?”. E l’anziano: “Perché tu non scorgi Dio con te”». Se non scorgi Dio, la sua presenza fedele e amorevole, la vita diventa pesante e nel deserto la tentazione più grande è l’idolatria, attaccarsi, come indica l’etimologia di idolo, a ciò che vedi, che sazia quel bisogno infantile e insaziabile di sicurezza, che poi travolge.
Confondiamo il desiderio, che è un pozzo senza fine, con il bisogno, e questo ci rende avidi, mai soddisfatti, alla perenne ricerca del superfluo e di ciò che non sazia la nostra sete più profonda. Che cosa ci spinge a volere sempre di più? La paura di perdere, il terrore della povertà, che alla fine richiama la madre di tutte le paure: quella della morte. L’avidità e l’accumulo di beni come antidoto alla paura della morte, quella idolatria del denaro che san Paolo definisce come la radice di tutti i mali (1Tm 6,10). Paolo la chiama pleonexia: volere sempre di più; quello che hai non basta mai e ti spinge a diventare sempre più famelico. E vieni spinto a essere famelico, perché altrimenti non consumi, non compri. Su un muro della mia città, per anni è rimasta una scritta emblematica e ammonitrice: «Produci, consuma e crepa!». Un bel programma di vita, non c’è che dire.
Il fatto è che l’idolo ti compra e ti trascina in un vortice di sofferenza da cui è difficile uscire. Il popolo d’Israele ha fatto questa esperienza nel deserto. Il libro dell’Esodo è paradigmatico di ogni attraversamento di una crisi. Il deserto non manca nella vita di ognuno di noi: prima o poi arriva la crisi, un fallimento, un insuccesso che ti fa stramazzare e che ti chiede ragione di ciò che conta davvero per te, di dove hai messo il tuo cuore, perché è lì che si trova il tesoro. Il deserto è scomodo, nel deserto non c’è niente: il deserto scarnifica, è vuoto, non puoi attaccarti a nulla. Nel deserto sperimentiamo la nostra finitudine e vulnerabilità: si ha sete, si ha fame, si ha caldo, si ha freddo, si ha paura…
Tutti i momenti di vera liberazione non portano subito alla terra promessa ma nel deserto. Nel deserto non si vive, ci si transita… per 40 anni o 40 giorni. La crisi ci spinge oltre. Ad andare oltre. Ci rimette in cammino. Nella Scrittura sacra i numeri hanno un forte valore simbolico: 40 indica un tempo necessario per ricevere un insegnamento. Si impara solo camminando, mettendosi in cammino oltre le nostre sicurezze, al di là di ciò che ci è familiare. Virginia Satir, una delle grandi della psicoterapia familiare della seconda metà del ’900, è illuminante quando ci ricorda che: «La maggior parte delle persone crede che l’istinto più forte sia quello di sopravvivenza, ma non è così. L’istinto più forte è quello di aggrapparsi a ciò che è familiare».
Il coraggio della povertà è accettare di perdere sicurezze, onori, ruoli, garanzie, polizze che ci assicurano contro il rischio di vivere, come se vivere fosse una malattia. Povertà è essenzialità, sobrietà, perfino la precarietà di non sapere dove saremo portati. Povertà di spirito è il coraggio di affidarsi a una promessa: non perdere la speranza, perché c’è una terra dove scorre latte e miele. Il popolo però si lamenta e mormora mentre cammina verso la terra promessa. Le crisi accadono e ci servono per dire: fermati e accorgiti, dove stai andando? Che cosa hai dimenticato? Che cosa desidera davvero il tuo cuore?
Nelle crisi ci si può perdere, smarrire, scoraggiare. Occorre che qualcuno, come Mosè, ci aiuti a disvelare la presenza di Dio nei fatti della nostra vita. Dov’è Dio in quel fatto? Che cosa c’entra con la crisi del mio lavoro o del mio matrimonio? Dov’è Dio quando piango o bestemmio la vita? È la fiducia che genera speranza. E la fede, è bene ricordarlo, non dà la sicurezza dell’evidenza, ma la certezza della speranza (John Henry Newman). La speranza che Dio agisce nell’oscurità. Quando non vedi e non speri più. Perché devi andare oltre, non fermarti alle sicurezze che ti farebbero sedere, accomodare, non camminare più. Se hai il coraggio di vedere al buio, di camminare anche se è notte, puoi percepire, prima flebilmente, poi con fiducia sempre più grande, che Dio è presente, che è sempre stato presente, più intimo a te di quanto tu lo sia a te stesso.
Quando si ha voglia di crescere si deve andare nella direzione del fastidio e del distacco. Laddove siamo accarezzati e basta, non cresciamo. Camminare rafforza la speranza, e la speranza è la capacità che l’essere umano, e solo l’essere umano, ha di lasciarsi condizionare dal proprio futuro. La speranza è la manna che ci fa andare avanti di giorno in giorno, perché soltanto l’oggi ci è dato di vivere. Abramo, uomo della speranza, cammina verso il futuro; Ulisse, uomo della nostalgia, ritorna al suo passato. Non si deve aver paura di perdere né temere la nostra vulnerabilità. Ogni momento di nudità e debolezza è un momento sacro, è l’inizio inconsapevole di ogni germoglio nuovo. Il Dio biblico, così come emerge da una lettura attenta della Torah, non è un genitore iperprotettivo né nevrotico: Dio vuole che cresciamo, che camminiamo, che impariamo ad amare e a vivere nella giustizia, perché «noi non sappiamo la nostra altezza, finché qualcuno non ci chiama ad alzarci» (Emily Dickinson).
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