Lingue al potere
L’elemento aggregante che forgia gli usi e i costumi, le leggi e le tradizioni di una comunità, in una parola la «cultura» di un popolo, è la componente linguistica. Non è un caso se la strategia messa a punto dalle potenze coloniali sui popoli sottomessi prevedeva l’apprendimento dell’idioma straniero, con l’intento non solo di comunicare ma soprattutto di esercitare e controllare il potere.
Con l’avvento della globalizzazione in tutte le sue molteplici declinazioni (economica, sociale…) stiamo purtroppo assistendo a una vera e propria omologazione sulla base di quelli che sono gli standard imposti dai grandi attori internazionali. Secondo la rivista «Ethonologue», in Africa, su una popolazione di 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, ci sarebbero oltre 2 mila lingue, vale a dire il 30% (7.139) di quelle parlate nel mondo. Ma quante di queste sono valorizzate, insegnate, utilizzate per scrivere o tradurre libri?
Emblematico può essere il confronto tra la lingua islandese, parlata da 393 mila persone e il luganda, utilizzata da 14 milioni di baganda in Uganda. La prima lingua ha avuto un discreto successo nell’editoria con centinaia, migliaia di pubblicazioni, oltre alle numerose traduzioni di libri e articoli dalla lingua islandese all’inglese. Di converso, il luganda non dispone della stessa produzione giornalistica e letteraria. Se il nigeriano Albert Chinualumogu Achebe, padre della letteratura africana in lingua inglese, avesse scritto nella sua lingua madre, l’igbo, avrebbe riscosso lo stesso successo internazionale? Un’identica domanda dovremmo porcela per altri grandi scrittori e poeti che hanno dovuto per forza scegliere l’inglese, il francese o il portoghese per assicurarsi il mercato dei libri.
Da rilevare che in Africa attualmente vi sono poco meno di un’ottantina di lingue utilizzate da più di un milione di persone. Le restanti sono parlate da popolazioni che vanno da poche centinaia a diverse centinaia di migliaia di persone, alcune delle quali sono solo in forma orale. Un contributo significativo è stato offerto dal mondo missionario. Ad esempio, nella biblioteca della casa madre dei missionari comboniani a Verona sono custodite grammatiche, dizionari, catechismi, testi di storia sacra, liturgici, educativi e di musica, tradotti nelle lingue delle etnie Alur, Logbara, Madi, Azande, Bari, Lotuko, Shilluk, Sidamo, Guji e tante altre.
Una cosa comunque è certa: per avere successo internazionale bisogna necessariamente avere padronanza delle lingue europee. Esse sono infatti tra le più parlate al mondo, ma servono soprattutto per comunicare tra persone di lingua madre diversa, in particolare per l’insegnamento e per le attività tecnico-scientifiche. Motivo per cui sono dette anche «veicolari». Un discorso a parte è quello del cinese (mandarino) parlato da 1 miliardo e 200 milioni di persone tra Cina, Singapore e Taiwan, ovvero il 15% della popolazione mondiale. Un numero che dovrebbe far riflettere considerando la crescente espansione dell’Impero del Drago.
La conclusione del nostro ragionamento rasenta il paradosso: nel 2014 quasi il 55 % dei francofoni erano africani, nel 2023 hanno superato il 60 %. Vale a dire che in Africa ci sono più persone che parlano il francese che nel resto del Pianeta. In un mondo villaggio globale, senza nulla togliere alla dimensione dell’universalità, così come ben espressa nella Dottrina Sociale della Chiesa, occorre salvaguardare le identità linguistiche (non solo africane) con i loro saperi ancestrali. Per dirla con le parole della scrittrice Elena Loewenthal, paradossalmente: «Ci si capisce meglio parlando lingue diverse».
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