Luce di speranza
Tutto il resto del mondo
Di Mariapia Veladiano
«Non esiste il nulla, signora». Il poliziotto era gentile, si era presentato, ma lei non ricordava né il nome né il grado. Anche lei era gentile, non sapeva le parole della scortesia. Non era in grado di dare in escandescenze, di gridare e pretendere un’attenzione particolare ed esclusiva, insisteva con lui solo perché era terrorizzata. Sprofondava. Un buco, una voragine, un non tempo, durante il quale il cuore non batteva e i polmoni non si espandevano. Era quella la morte? No, perché parlava e rispondeva, ma sembrava la porta giusta. «Non è scomparsa nel nulla. Sua figlia ha cellulare, borsa, carte di credito», riassumeva con voce rassicurante. «Ha ventiquattro anni, si è laureata in medicina un mese fa, conosce tre lingue e ha viaggiato». «Poco», lo interruppe lei. «Sì. Ma lo sa fare. Ha un’età in cui è... normale farlo, giusto? E ha con sé una valigia». «Minuscola. Una di quelle che stanno in cabina negli aerei economici. Assurdo. Se fosse andata via, me lo avrebbe detto. Non è raggiungibile, il telefono. Abbiamo uno splendido rapporto, siamo solo noi due». «Da aereo», ripeté lui.
Batteva veloce al computer, non sottovalutava, ma non sembrava angosciato, di sicuro non nella misura adeguata a una scomparsa. Questo era. Una scomparsa. Scomparsa nel nulla, aveva detto lei poco prima. Da due giorni. Intorno a lei il mondo girava. Due poliziotte erano uscite come schegge per una telefonata evidentemente più importante della sua denuncia. Denuncia, che orrenda parola. «Le suona il telefono, signora», disse il poliziotto. Era bravo, scriveva, ma attento al resto. «Sìssì ecco», rispose. Rispose. In effetti rispose. Era lei. «Spero che tu non ti sia preoccupata troppo – disse –. Aspetta. Tranquilla, sto bene. Sono a Port Au Prince. Sì, Haiti, il mio gruppo, sai chi sono loro, dottori, infermiere. Resto qui per quel che serve. Scusa. Scusa scusa scusa. Io torno appena posso. Capisci. Vorrei dare speranza». «È ad Haiti – disse lei al poliziotto –. È caduta la linea».
«Ecco!». Sorrideva sollevato. «Era lei. È ad Haiti». Piangeva. «Mia figlia fa parte di un gruppo, raccolgono aiuti». Piangeva. «Perché non mi ha parlato? Deve avere organizzato da prima». Cercava di ricomporsi. Ma era impossibile. «Forse lei avrebbe cercato di fermarla?». Il poliziotto aveva appoggiato le mani sulla scrivania. Niente più denuncia. «E forse non si sentiva abbastanza forte per resistere alle sue ragioni?». «Perché non ci sono ragioni! Adesso. Appena laureata. Che... tutto assurdo, siamo solo noi due». Piangeva. Di sollievo e di rabbia, di impotenza, di impossibilità. Era una madre tranquilla, aveva avuto Alberta da grande. Il padre era già malato. Erano solo loro due. «Voi due e tutto il resto del mondo», osservò il poliziotto. «Vuole dare speranza, ha detto. Non è ragionevole». Si ricomponeva, alla fine. «Forse ragionevole è solo la speranza», disse il poliziotto chiudendo il computer.
Dalla stessa parte del marciapiede
Di Davide Rondoni
Era un tizio che girava sempre con due grandi borse. Una sembrava di quelle vecchie da postino, con degli scomparti interni, sempre ricolma, con la pelle che tirava e mostrava segni e rughe, come se fosse una prosecuzione del suo viso. L’altro invece era un sacchettone blu tipo quelli dell’Ikea o di altri grandi magazzini. Lui era un signore inelegante, attempato, direi quasi invecchiato male se non avesse avuto un che di nobile nel passo. Io lo incrociavo con questi giacconi sempre un po’ pesanti anche in primavera, e sempre coi due borsoni. Aveva le sopracciglia folte, non ben curate come anche gli uomini si fanno adesso, una barbaccia grigia e gli occhi, ecco, gli occhi erano splendenti. Solo dopo molto tempo che lo incrociavo nel tragitto da casa alla stazione della metropolitana – mi veniva sempre incontro dal mio lato del marciapiede – osai chiedere, timidamente e facendo ricorso a uno stratagemma: «Scusi, posso aiutarla?». In realtà non me ne fregava nulla di aiutarlo, ma ero curioso, tremendamente curioso, di sapere che cosa portasse in quelle borse.
Dapprima mi guardò un po’ fosco, sospettoso. Forse il mio stratagemma risultava in effetti un po’ ridicolo, avevo avuto ormai un centinaio di occasioni per aiutarlo. Poi sorrise, e aveva un sorriso buono. Sì, buono. Si può usare questa parola, o dovrei ricorrere a manuali di psicologia, di comunicazione affettiva? Insomma, quel sorriso sciolse il mio imbarazzo. Mi allungò il sacchettone blu, dicendo solo: «Ecco, non pesa granché questo». In effetti era molto più leggero di quel che sembrava, rigonfio com’era. Provai a sbirciar dentro per capire che cosa contenesse. Ma c’era solo un confuso impacchettamento, involti di carta, pezzi di plastica. Non si capiva davvero che cosa ci fosse. Arrivai a pensare che forse erano pezzi di polistirolo, o qualcosa di insensato. Accade a volte nelle nostre città, di vedere poveri matti trascinarsi borse piene di cose alla rinfusa, stracci, carte e chissà cos’altro. Lui un po’ somigliava a quelle figure ma una certa dignità lo rendeva molto differente. «Sa che c’è dentro?» mi chiese dopo una ventina di passi, senza aver detto una parola prima. «No», lo guardai dissimulando la curiosità che invece saliva in me. Lui si fermò, e toccò il ramo di una pianta che secondo gli urbanisti avrebbe dovuto decorare quel viale e che invece, ingrigita e quasi ammosciata, ne peggiorava la mestizia. Notai però che la pianta, dove lui ne toccava la foglia e intorno a quel punto, veniva tingendosi di un nuovo verdeggiare, quasi che una linfa nuova passasse dal tocco di quelle dita al ramo. «Ma visto che me lo chiede – dissi un po’ turbato – ora lo vorrei sapere».
Quello staccò le dita dalla pianta e proseguì. Tenni il passo, osservando, con la coda dell’occhio e girandomi un istante, che la pianta stava tutta rinverdendo. «C’è il tempo» disse, con la medesima naturalezza con cui mi poteva dire «ci sono delle uova e un po’ di sottaceti». Non dissi nulla per qualche passo. «Il tempo, ha detto?». «Sì, ci siamo incrociati tante volte no? Faccio la sua stessa strada, se ne sarà accorto» disse quasi un poco contrariato. «E dove lo porta, il tempo?» dissi, provando a tenere una conversazione che si stava facendo difficile, strana. «E dove lo dovrei portare? Da nessuna parte, viene avanti e indietro con me. E con lei». Mi fermai. «Ma lei come si chiama?» chiesi e ebbi quasi paura della risposta. Lui sorrise di nuovo, in quel volto che sembrava burbero e aveva una sfuggente dolcezza. «Mi chiamo Hope» disse, e sembrava aver detto la cosa più normale di sempre. E aggiunse «Se domani starà più attento, forse capirà perché mi incontra sulla sua strada, tutti i giorni, tutti».
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